CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES 2014
In costante movimento tra modernità e cinema in costume, tra biografie di finzione e biografie reali, Mike Leigh ha portato a Cannes un film in costume biografico a tutti gli effetti, sull'ultima parte della vita del pittore britannico Turner, uno dei più importanti paesaggisti di sempre.
Come in Tupsy Turvy a Leigh interessa raccontare per interposta persona la maniera nella quale lo sforzo di produzione artistica debordi nella vita personale, artisti che sono esseri umani animati da una sete instancabile di assimilare quello che poi useranno per produrre arte.
E' un uomo pessimo Turner, scorbutico ed egoista, interessato solo ai suoi quadri eppure affascinante nella maniera in cui Leigh lo presenta come disposto a tutto per abbeverarsi di paesaggi, insaziabile macchina del desiderio che passa più tempo a vedere che a dipingere ciò che ha visto.
Sebbene la maniera in cui è presentato Turner non sia distante dallo stile complicato e irreplicabile con il quale in Another Year venivano dispiegate le vite delle persone, non si ritrova quell'equilibrio incredibile tra la documentazione e la lettura personale. In Mr. Turner manca cioè la capacità disarmante che avevamo riconosciuto a Mike Leigh di nascondere il proprio punto di vista riuscendo a convincere lo spettatore di essere lui a notare, trovare e comprendere quel che in realtà nel film è immesso dallo stile e dalla visione del regista. Nascondersi non dietro le immagini ma nel proprio ruolo di suggeritore nella mente dello spettatore.
Mr. Turner paga pegno a certi crismi del cinema biografico, è molto più in linea con quello che ci si può attendere da un film in costume su un pittore (non mancano paesaggi ed esterni, solitamente rari nel cinema di Leigh) e il consueto quoziente di presenzialismo di nomi noti dell'epoca. Inoltre si nota di continuo una fastidiosa sovrapposizione tra oggetto del racconto e autore. Nella maniera in cui è raccontata la parte meno romantica del far arte (la lotta per una buona posizione nelle gallerie, il rapporto coi critici e con l'arrivo della modernità) al pari di quella in cui si riflette sulla maniera di vivere una vita da artista è impossibile non scorgere esigenze autobiografiche che stonano non poco.
Il risultato è quindi una via di mezzo tra il cinema estremo (il migliore) del regista britannico, quello che sembra non aver cura per tutte le più elementari regole codificate del cinema narrativo, e i film biografici più scontati. Non se ne può uscire delusi (specie dopo le due inquadrature quasi parallele che chiudono la storia) nè si può dire che alcune cose non rimangano impresse (il grandissimo e bieco Timothy Spall che usa un registro di grugniti per comunicare, la tempesta osservata legato all'albero maestro e molto altro) ma alla fine sembra legittimo pretendere di più.
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