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20.12.13

Il capitale umano (2013)
di Paolo Virzì

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Scegliendo di adattare un libro straniero, Paolo Virzì assieme al solito Francesco Bruni e Francesco Piccolo, hanno scelto subito di andare a battere un percorso diverso dal solito, di lavorare cioè su strutture, personaggi e dinamiche che non sono quelle a loro più congeniali, per maneggiarle a modo proprio. Il risultato è questo, una storia che ha delle venature di giallo (nella prima scena c'è un incidente ma non è chiaro fino alla fine chi sia il colpevole) enfatizzate da una costruzione del racconto non lineare.
In Il capitale umano vediamo sempre i medesimi eventi (che si svolgono in circa 6 mesi) prima dal punto di vista di un personaggio, poi da quello di un altro, poi un altro ancora e solo infine con la consueta prospettiva oggettiva del cinema.

E' una storia d'arroganza imprenditoriale, aspirazioni piccolo borghesi e rovina generica in cui molti personaggi vengono piegati fino a sembrare quelli del repertorio di Virzì e Bruni. Fabrizio Bentivoglio non appare troppo lontano dal Sergio Castellitto di Caterina va in città, che disperatamente quanto goffamente brama la scalata sociale, e Valeria Bruni Tedeschi pure si agita tra noia altolocata e una vaga passione artistica che la mette a contatto con i più consueti intellettuali di provincia del repertorio Virzì/Bruni. C'è insomma il loro universo di riferimento.
Come spesso è capitato nella filmografia del duo però l'impressione è che quando si tratta di maneggiare le storie di adulti, le questioni familiari e l'irrisolutezza di alcune categorie umane il tratto solitamente vivace si fa banale, le soluzioni si ripetono di continuo e non si concretizza mai quella magia dei momenti migliori del cinema dei due livornesi, ovvero la capacità di recuperare il senso ultimo del cinema più classico e ridare alle emozioni, ai momenti e situazioni più note la forza che meritano.

In Il capitale umano dunque non è la trama o la costruzione a colpire particolarmente (come sempre Virzì è bravissimo e di film in film la sua capacità di raffinare la messa in scena migliora a vista d'occhio) quanto le piccole scelte di caratterizzazione dei personaggi. Il punto di forza dei due. Questo è lampante nella terza parte del film, quando seguiamo il personaggio più giovane.
A confronto con personaggi più giovani, non vessati dai soliti vizi ma portatori di molte contraddizioni diverse e complesse, Il capitale umano si apre, ogni dialogo appare di nuovo vero e anche la storia trova un personaggio nuovo interessante e complesso. In quel momento si capisce molto del film e anche l'incidente iniziale è visto sotto una luce diversa dallo spettatore, solo perchè cambia il principale sospettato, più fragile e indifeso. L'ossessione per le differenze di classe del cinema di Virzì lavora quindi nel pubblico per dimostrare quanto pure il suo giudizio riguardo la medesima situazione sia influenzato da esse.

Se insomma gran parte di Il capitale umano (titolo incluso) sembra girare dalle parte del Salvatores più svogliato, cioè sembra interpretare il genere cinematografico con un'aderenza alle sue regole solo di facciata, molto pigra e quasi forzata, preferendo piegarlo agli stilemi del cinema italiano (e purtroppo non ai migliori), solo nell'ultima parte vediamo realmente come il miglior esempio di Virzì e Bruni possa adattare una storia che non appartiene al nostro cinema contemporaneo e usare il lento raccontare del cinema per far emergere qualcosa di più, per condannare realmente una protagonista a cui il pubblico tiene, per fare davvero qualcosa che incida e non sparare sui soliti bersagli a destra e a manca.

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