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9.9.16

Paradise (id., 2016)
di Andrei Konchalovsky

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
CONCORSO
Paradise non è quel che hanno fatto i nazisti, come spesso racconta il cinema dell’Olocausto, ma quello che sognavano, assieme agli altri uomini e donne del loro tempo. Un’ebrea, un ufficiale SS e un commissario francese che collabora con la Germania hanno un’idea diversa del Paradiso, cioè un’idea diversa di cosa possa esserci in un domani migliore. Ognuno è convinto, ognuno è messo alla prova dagli eventi che vive, l’intreccio classico del cinema cui Konchalovsky riserva un trattamento d’altri tempi, compassato e misurato.
La parte più fastidiosa di Paradise è infatti come ostenti il suo statuto di cinema vintage. Si presenta in bianco e nero, ha un quadro in 4:3 e in certi momenti trova alcune delle inquadrature contemporanee più somiglianti per fotografia e composizione ad un film degli anni ‘30. Sa di essere bello di una bellezza passata, ricalcato (e bene) su modelli aurei, e lo sbandiera.

Sono difetti veniali però, perché Konchalovky centra uno dei film migliori della sua carriera, un racconto quasi perfetto, che svicola ogni ostentazione e ogni ruffianeria pur muovendosi sul terreno più ruffiano che ci sia: l’Olocausto. La sua storia di ufficiali nazisti innamorati di prigioniere ebree è vecchia come il cucco ma non importa, perché a Koncahlovsky interessa il crollo dei sogni, interessa non tanto cosa scelgono di fare questi personaggi (che poi è quel che sarebbe interessato a qualsiasi altro regista al suo posto) ma cosa sognano, a cosa aspirano, e come il Paradiso a cui tendono li stia ingannando. Lui è innamorato dell’idea di ideale, non dell’ideale in sé, ama anche il nazista e la sua illusione. E in questo dettaglio sta una forza etica e morale superiore.

Con una sovrapresenza di “cinema” nella storia incarnato in proiettori, ricordi e immagini su pellicola (vediamo anche i protagonisti confessarsi in camera come in un interrogatorio, in immagini la cui pellicola appositamente salta in certi punti o stacca in maniera appositamente brutale) e una capacità che impressiona di inserire piccoli momenti di genere in un affresco più grande, senza che il loro inserto stoni o suoni fuori luogo. Konchalovsky ha la mano delicata, fa innamorare i protagonisti in un flashback antecedente alla guerra, su una terrazza in Italia e sembra quasi di riuscire a farci guardare l’Italia con gli occhi di uno straniero, attraverso la mitologia del bengodi, del grande servizio e della vita molle.

Nell’inferno che è l’Olocausto (e a Konchalovsky non servono le consuete iperboli, basta una scena sola di sopraffazione per dipingere una quotidianità terrificante) l’ufficiale sogna un Paradiso ariano, in cui non esistano più ebrei, trova ridicola e puerile l’idea della superiorità tedesca ma è molto convinto della nocività ebrea (e già questa è una discriminazione e una complessità che raramente si vedono); la prigioniera sogna di liberarsi, magari proprio grazie all’ufficiale; un povero collaborazionista sogna una prestazione erotica come favore di scambio. Ma il racconto che li prende è superiore alle loro piccole vite, che poi è la ricetta ideale per dare ai cambi d’opinione dell’ultimo momento un senso e un valore: costruendoli.
Certo è vero che Paradise alla fine cede ad un po’ di ruffianeria e va in deroga a quella che sembrava una regola autoimposta di non calcare mai la mano, addirittura svela un twist metafisico. Ma, di nuovo, di fronte ad un racconto così perfetto, partecipato ed intellettuale nel senso meno autoreferenziale possibile, sono dettagli.

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