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14.5.20

Capone (id., 2020) di Josh Trank

Ci vogliono decine di minuti perché Capone entri nel vivo. Nonostante abbia una lunghezza non eccezionale (103 minuti), lo stesso ha una riluttanza ad entrare nel vivo irritante. Il suo fare melina a lungo sarebbe poi l’essenza stessa del film, ovvero rimestare nel labirinto di una mente anziana e non più in controllo del corpo, indugiare sullo spaesamento dell’uomo criminale potente per antonomasia. E questo è il suo peccato capitale: essere un film sperimentale negli abiti del più convenzionale dei film biografici.

Josh Trank non solo scrive e dirige ma monta anche, concedendosi di quando in quando stacchi a sorpresa, o passaggi velocissimi in cui si distingue una mano non proprio esperta, né realmente audace nello sperimentare. Eppure il problema principale è proprio il fatto che il montaggio non riesce mai a dare un ritmo a questo film senza eventi, tarato su standard estremamente convenzionali (una grande figura presa in vecchiaia, la demenza senile fatta di visioni e personaggi che in realtà non sono lì) che si pretende portino addirittura a dei colpi di scena.
La realtà invece è che c’è una costante indecisione su quali argomenti affrontare, finendo per accennarne e introdurne molti senza che niente entri nel vivo.

Sembra la sua paranoia il punto centrale. Ma non lo è. Sembra il suo tesoro nascosto e la ricerca di questo da parte di tutti quelli che gli girano intorno. Ma non lo è davvero. Forse sono i figli e il suo difficile rapporto con loro. E invece no. Ad un certo punto è anche suggerito che forse il vero perno potrebbe essere la bancarotta, cioè il progressivo e lento perdere tutti i propri beni per un uomo per il quale questi rappresentano tutto (come le statue romane con inserti d’oro simulacri di un passato pieno di desiderio di comando e potere), ma nemmeno quello viene davvero messo al centro. Passiamo da un perno all’altro con il medesimo atteggiamento spaesato di Capone senza tuttavia mai essere nei suoi panni.

Quanto peggio Al Capone non è mai una figura originale. Nonostante l’impegno di Hardy (totalmente fuori scala rispetto al film e quindi stonato) il suo Capone è un generico anziano demente con un grande passato alle spalle. Certo è violento ma non riesce mai a giungere ad una personalità sua, unica, è la replica di mille altri boss ormai alla fine dei giorni, pericolosi e in dismissione. Capone riesce così nella doppia impresa di essere terribile sia sulla scala che imposta per sé (quella del film visionario che cammina dentro i percorsi di una mente non lucida) sia su quella su cui effettivamente andrebbe valutato (quella del film biografico convenzionale che affronta una personalità illustre in un momento particolare).

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