I cartoni fatti da chi non fa i cartoni. L'esplosione dell'animazione nell'era moderna è arrivata alla fase in cui questi fuoriescono dagli studios solitamente dedicati ad essi e diventano materia buona per registi di tutti i tipi. Non solo gli specialisti (i pixariani, la Dreamworks e via dicendo) ma anche Wes Anderson o Gore Verbinski, registi molto focalizzati sul cinema live action che portano quel modo di fare e lavorare nell'animazione.
Rango è un film strano, affascinante e complesso almeno per tre quarti, poi purtroppo è un po' schiacciati dal peso delle sue ambizioni e dalla difficoltà di far collimare due idee diverse di west e deserto (quella classica in cui l'uomo lo colonizza e lo trasforma in luogo di vita e quella moderna psichedelica in cui è un luogo di morte in cui trovare se stessi attraverso un'esperienza tra l'allucinato e il mistico).
Un camaleonte da acquario, che si crede un attore, per errore si ritrova sbalzato fuori dall'auto in cui lo trasportano nel mezzo del deserto. Troverà una cittadina west e comincerà a recitare la parte dell'eroe della valle solitaria + lo straniero senza nome. Come inaspettato risultato (e da vero camaleonte) diventerà ciò che finge di essere.
Il metacinematografico è dietro l'angolo ma sempre ben dosato, non invade e non appesantisce, Rango è un film da ridere e di grande azione, quella colma di senso dell'intrattenimento e di furioso dinamismo, quella che era il punto di forza del primo I Pirati dei Caraibi e che ricorda il miglior Indiana Jones.
Il riferimento esplicito e diretto è però Sergio Leone e la sua idea di un west di volti e non di spazi. Lo si capisce dalla carrellata di incredibili personaggi secondari, minuziosamente curati e vicini a quell'idea leonina di polveroso west messicano. Eppure Rango sembra attraversare tutta la storia del genere western, dall'eroe senza macchia, alla sua caduta, dalla disillusione alla variazione messicana, fino alla fine del mito della frontiera e l'arrivo della modernità.
Dopo una serie di sequel che non gli hanno reso giustizia finalmente Verbinski torna a mostrare quella maestria notata in The Ring, quella capacità di raccontare molto con molto poco, di gestire personaggi e trama con un forte senso dinamico. E addirittura alla fine (o sarebbe meglio dire all'inizio) anche la parte sentimentale funziona.
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