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19.4.11

Rio (id., 2011)
di Carlos Saldanha

Rio dimostra che soggetto, ambientazione e possibilità non cambiano molto nella gestazione di un lungometraggio d'animazione. La squadra responsabile (civilmente e penalmente) per la trilogia di L'Era Glaciale, cambia sponda e passa ad un film ricco, assolato e colorato ma ugualmente povero, freddo e grigio.
Rio fa sfoggio di una potenza di calcolo non indifferente, esagera in colori e scene di massa riuscendo in più d'un momento ad impressionare ma mai a coinvolgere.

Con un'ottica e delle idee sempre meno personali e sempre più disneiane d'annata (pure le canzoni c'avete messo!), Saldanha imbastisce un film tutto mossette, animali antropomorfi e gag fisiche senza fantasia. Gli uccelli che ballano dovrebbero far ridere e la ricerca di libertà da parte di un pennuto (il volo come metafora) dovrebbe commuovere.
Rio non ha davvero nulla di proprio e autonomo, nè qualcosa di realizzato a regola d'arte. Il Brasile stesso, patria del regista, è visto con gli occhi del turista e ripreso nelle sue dimensioni più stereotipiche (la corsa in moto nelle favelas!!), un paese che in qualsiasi momento si arrivi sta per iniziare il Carnevale.

Qualsiasi cosa possa venire in mente di interessante a partire da uno spunto che racconta di un uccello, ultimo rimasto della sua specie, che cresce nel freddo Minnesota e trasportato a Rio si perde nel suo paese Natale per poi ritrovare se stesso, è trascurata. Alle volta sembra che davvero l'unico scopo della complessa macchina messa in moto, per un film dai tempi di rendering infiniti, sia mostrare animali che ballano come umani che sculettano.
C'è anche un momento in cui tutto sembra perduto ed un personaggio sta per essere portato via lontanissimo, ad una distanza senza speranze. Ecco in quel momento si pensa a cosa avrebbe potuto fare la Pixar e si tocca con mano il divario, non tanto con la casa di Lasseter (irraggiungibile per definizione) quanto con il cinema decente.

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