FESTIVAL DI CANNES
UN CERTAIN REGARD
Già sulla carta la storia, vera, di un gruppo di ragazze di ottime famiglie
losangeline che entrano nelle case delle star quando sanno che queste sono
in altre città per rubare oggetti di moda, sembra un soggetto pronto per Sofia
Coppola, ma lo stupore vero è quanto la regista sia riuscita a tramutare un fatto
di cronaca in un film, senza cedere un passo dal proprio stile (che poco ha di
narrativo) e trovando la vera chiave di lettura di tutta la faccenda.
Partendo infatti dalle interviste ai protagonisti la Coppola costruisce delle
psicologie (forse aderenti alla realtà delle cose, forse no, non importa più) e
imbastisce una storia in cui emerge non tanto il ritratto desolante di ragazze
totalmente vittime della moda e di stili di vita al di sopra del loro già alto tenore,
quanto un’idea fragile e toccante di amicizia e una ricerca d’affetto confusa e
tenera, tipica dell’età in questione ma anche esasperata dal contesto.
Sofia Coppola alterna la storia, alla ricostruzione delle interviste ai protagonisti
fatte dalla giornalista di Variety dal cui pezzo tutto è partito, alle immagini di
repertorio delle star derubate e delle notizie ai telegiornali.
A sorpresa però la narrazione è lasciata alle suddette immagini di repertorio,
mentre il materiale girato per il film procede di “quadro” in “quadro” senza
che ci sia un intreccio, senza che i personaggi siano presi in una trama. E’ solo
un’escalation di furti comandata da Rebecca ed eseguita dagli altri a diversi livelli
di partecipazione e mania compulsiva.
Ovvero quel che accade è che la parte di repertorio del film è quella che svolge
la funzione “fictional” di intrecciare gli eventi, mentre quella di finzione cerca
di documentare le persone dietro tutto questo, o meglio la visione che Sofia
Coppola ha di quest’ambiente e di quel tipo di relazioni personali che sono anche
relazioni sociali, traslato attraverso questi personaggi reali.
Sembra insomma che in ogni momento la regista dica: “Lo so io che gli passa per
la testa a questa gente, perché agiscono così, in base a quale codice e con quali
aspirazioni”.
Una particolare fascinazione sembra però provarla per Nicki, il personaggio di
Emma Watson, il più complesso, divertente e stratificato, il più feroce e assurdo,
per cui paradossalmente il più vero. E questo soprattutto grazie ad Emma
Watson, bravissima a rendere una gamma di espressioni calibrate e significative
con una misura impressionante.
La Coppola non ha "costruito psicologie", ha costruito macchiette. Non c'è uno solo dei personaggi (tranne, in maniera comunque stereotipata e superficiale, quello maschile) che sia indagato con un briciolo di profondità, al di fuori delle solite banalità sociologiche un tanto al chilo che saltano fuori automaticamente quando si parla di storie simili (materialismo, dominio dell'immagine, mancanza di valori, bla bla bla).
RispondiEliminaIl personaggio della pur brava Watson poi è quello più caricaturale di tutti: la solita stronzetta affamata di notorietà.
A me resta l'impressione di non aver visto un film ma una fotografia. Bidimensionale e dai confini ristretti. Forse era proprio questa l'intenzione, boh.
Secondo me no. C'è un modo di mettere in relazione i personaggi che è molto peculiare e significativo, tu li vedi come macchiette ma in realtà la maniera in cui si relazionano li definisce molto. C'è questo modo di raccontare gli esseri umani, così desaturato, così anestetizzato da tutto che è il contrario di quel che dici.
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