Se c'è una cosa che mi piace di Spike Lee è la sua capacità di creare lentamente un'atmosfera. E', per dire, l'unica cosa che mi è piaciuta di La 25° Ora e che ritrovo quasi sempre nei suoi film più personali (per questo è assente dal pur bello Inside Man).
E' la fotografia brillante, luminosa e colorata, sono le musiche insistenti ma mai pedanti e il modo in cui racconta le sue storie. I suoi film cominciano sempre in un modo e lentamente la situazione degenera esponenzialmente; come in una spirale i fatti e i peronaggi si estremizzano. E come sempre la colpa non è di nessuno, oppure, che dir si voglia, è di tutti.
La storia è quella di uno spacciatore, un clocker, che come quasi tutti nei suoi quartieri popolari sogna una vita migliore, sogna il successo, il rispetto ed il potere per uscire dal disagio di una vita popolare e come la maggior parte dei suoi amici vuole raggiungere quest'obiettivo lavorando nella criminalità, anche se in fondo lui sembra onesto dentro. A partire da questo Spike Lee costruisce un noir melodrammatico in cui ci si immedesima forzatamente con un protagonista che non è forse il massimo della bontà ma certamente è disperato, non riesce a fuggire dalla sua realtà ed è stretto sempre di più tra il crimine e la giustizia (personificata in Harvey Keitel, un uomo che c'è sempre nei film che contano), due spinte che gli fanno del male fisicamente e mentalmente.
Fantastica l'idea di attribuire al personaggio principale un malessere fisico evidente, una sorta di gastrite aggravata che lo fa stare sempre peggio ed è la dimostrazione pratica dell'accumulo di malessere. Ogni qualvolta le cose peggiorino sopraggiunge il malore fisico sempre più grave, tossisce sangue, viene ricoverato e alle volte è incapace di stare dritto. Il malessere interiore non è facile da rendere sullo schermo e la sua rappresentazione attraverso un male fisico è perfetta.
Ma forse la parte migliore del film è il lavoro per contrasto che viene fatto con la fotografia e la musica, sempre splendenti, luminose e tranquille. Strade assolate, colori sgargianti, immagini pulitissime e musica lenta e soffusa fanno da contrappunto a scene di violenza, di interrogatori, di perquisizioni e di mala educazione.
Unico elemento veramente fastidioso è il continuo puntare il dito contro i videogiochi, un classico di Spike Lee che si trova anche in Inside Man. Stupido e superficiale.
3 commenti:
Ciao, scusa l'OT, aggiungeresti il mio voto a Lettere da Iwo Jima su cinebloggerz?
Ciaoo Rob
film che ho sempre voluto vedere... Questo e He Got Game...
Anche a me manca He Got Game e lo voglio vedere assolutamente.
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