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22.8.11

Harry Potter e i Doni della Morte - Parte II (Harry Potter and the deathly hallows - part II, 2011)
di David Yates

L'ottavo e ultimo film potteriano non chiude solo un ciclo di dieci anni di produzioni filmiche, ma anche il ciclo registico peggiore della saga. Dopo i due film di Columbus, quello di Cuaron e quello di Newell è stato Yates ad assurgere al ruolo di "regista di fiducia" della Warner per il franchise multimilionario e dopo tre film che hanno abbassato notevolmente la sapidità, l'interesse e la scorrevolezza delle avventure ad Hogwarts finalmente l'ultimo capitolo ci regala scampoli di cinema serio. Sicuramente i nodi arrivati al pettine della trama hanno dato una mano ma in più di un momento Yates si è preso delle libertà inventive (o le ha concesse ai suoi collaboratori) come non se n'erano viste.

Una sequenza al rallentatore ed una con musica in aperto contrasto allo scenario battagliero (come nella famosa pubblicità di Gears Of War / Mad World), un paio di trovate sceniche degne di questo nome e un ritmo in generale più sostenuto e centrato sull'azione, danno tutto un altro respiro al film. Torna quel fascino potteriano che si era distinto ad inizio saga, tornano quelle motivazioni che avevano avvinto un pubblico non solo giovanile e torna infine una dimensione emotiva degna di questo nome.
Quello che era promosso come il più battagliero e il più forsennato tra i film si rivela invece il più sentimentale come è logico che sia.

Il racconto della Rowling da una parte svela in pieno tutte le metafore cristologiche del salvatore-Potter (perdona ogni maligno, offre possibilità di pentimento e infine muore e risorge per salvare tutti) e dall'altra si concede quasi una lettura "apocrifa" della parabola evangelica (il Giuda della situazione, Severus Piton, è il buono e il suo tradimento è in sè per sè un sacrificio, l'unico modo affinchè tutti possano essere salvi e alla fine l'eroe glielo riconoscerà ponendolo al livello dei più stimati personaggi dell'intera saga).
A questo Yates affianca una messa in scena dai toni cupi come quelli che avevano caratterizzato le altre sue produzioni in grado però di riscoprire i piccoli momenti di comunione. Per la prima volta nella gestione yatesiana si coglie la volontà di dare ad ognuno un cuore, costellando il film di minuscoli assoli che corrispondono ad impennate emotive.
E se alla fine il finale vero e proprio si scioglie nel nulla e in un'inaspettata banalità, il sottofinale sembra più convincente di tutti gli altri 3 film che Yates aveva portato sullo schermo messi insieme.

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