Tulpan è cinema estremo, ma estremo sul serio. E' un modo di fare film che in tutti i sensi mette alla prova lo spettatore proponendogli una storia ordinaria raccontata cercando di provocarlo e infastidirlo per giungere alla comprensione di sentimenti e realtà diverse.
Per raccontare una storia di aspirazioni, sogni e drammi di pastori nella steppa del Kazakhstan il regista Sergei Dvortsevoy non lesina in dettagli, lunghi piani sequenza e narrazione rarefatta. Tutto questo si traduce in un indubbio calo di ritmo e in una certa difficoltà a seguire il film che procede a lungo sui binari della contemplazione per trovare svolte sono in piccoli momenti.
Ma a fronte di tutto ciò Tulpan è anche un film capace di metterci di fronte ad un modo realmente diverso di intendere il regista e il suo occhio. Dvortsevoy gira con macchina a mano e per lunghi piani sequenza, passa intorno ai suoi protagonisti nei loro atti quotidiani e li "guarda" come non li avesse mai visti, come una persona effettivamente guarda chi gli sta intorno. Quando accade qualcosa non ha la vergogna di spostarsi, anche velocemente, per andare a controllare dietro un angolo o dentro una casa cosa sia successo e per cercare l'angolazione da cui meglio si può capire o cogliere un'emozione.
Come una persona che stia effettivamente sulla scena Dvortsevoy si muove alla ricerca dell'oggetto del suo desiderio. Così facendo non solo si intuiscono più cose ma soprattutto è ancora più chiaro quale sia la posizione dell'autore che continuamente compie scelte evidenti e si muove in accordo ad esse.
Eppure il film non è realista in maniera dissennata, anzi. La fotografia curatissima è attenta a mettere in scena solo le diverse variazioni del giallo sabbia che pervade quei luoghi e l'audio sempre presente e sempre molto forte è spesso irreale, cioè coglie rumori, suoni e versi ambientali anche quando sono eccessivamente lontani. Tutto è finalizzato alla costruzione di un'esperienza che non sia necessariamente realistica ma pilotata e guidata dalla volontà di chi la mette in scena.
Anche riguardo ciò che fa vedere Tulpan non ha remore, ci sono lunghi piani sequenza di un parto di una pecora mostrati senza nessuna vergogna e con uno spirito che potrebbe sembrare documentaristico se non fosse che spesso l'audio è modificato e amplificato per arrivare più in là della realtà.
Ci sono film che sono "esperienze" ed è difficile categorizzarli semplicemente come belli o brutti, Tulpan sicuramente è tra questi. Non è facile e non cerca la benevolenza dello spettatore a tutti i costi ma è un'opera complessa che ci mette alla prova veramente regalando una prospettiva diversa su come il cinema indaghi la realtà.
Per raccontare una storia di aspirazioni, sogni e drammi di pastori nella steppa del Kazakhstan il regista Sergei Dvortsevoy non lesina in dettagli, lunghi piani sequenza e narrazione rarefatta. Tutto questo si traduce in un indubbio calo di ritmo e in una certa difficoltà a seguire il film che procede a lungo sui binari della contemplazione per trovare svolte sono in piccoli momenti.
Ma a fronte di tutto ciò Tulpan è anche un film capace di metterci di fronte ad un modo realmente diverso di intendere il regista e il suo occhio. Dvortsevoy gira con macchina a mano e per lunghi piani sequenza, passa intorno ai suoi protagonisti nei loro atti quotidiani e li "guarda" come non li avesse mai visti, come una persona effettivamente guarda chi gli sta intorno. Quando accade qualcosa non ha la vergogna di spostarsi, anche velocemente, per andare a controllare dietro un angolo o dentro una casa cosa sia successo e per cercare l'angolazione da cui meglio si può capire o cogliere un'emozione.
Come una persona che stia effettivamente sulla scena Dvortsevoy si muove alla ricerca dell'oggetto del suo desiderio. Così facendo non solo si intuiscono più cose ma soprattutto è ancora più chiaro quale sia la posizione dell'autore che continuamente compie scelte evidenti e si muove in accordo ad esse.
Eppure il film non è realista in maniera dissennata, anzi. La fotografia curatissima è attenta a mettere in scena solo le diverse variazioni del giallo sabbia che pervade quei luoghi e l'audio sempre presente e sempre molto forte è spesso irreale, cioè coglie rumori, suoni e versi ambientali anche quando sono eccessivamente lontani. Tutto è finalizzato alla costruzione di un'esperienza che non sia necessariamente realistica ma pilotata e guidata dalla volontà di chi la mette in scena.
Anche riguardo ciò che fa vedere Tulpan non ha remore, ci sono lunghi piani sequenza di un parto di una pecora mostrati senza nessuna vergogna e con uno spirito che potrebbe sembrare documentaristico se non fosse che spesso l'audio è modificato e amplificato per arrivare più in là della realtà.
Ci sono film che sono "esperienze" ed è difficile categorizzarli semplicemente come belli o brutti, Tulpan sicuramente è tra questi. Non è facile e non cerca la benevolenza dello spettatore a tutti i costi ma è un'opera complessa che ci mette alla prova veramente regalando una prospettiva diversa su come il cinema indaghi la realtà.
2 commenti:
È indubbiamente un film che ha il suo punto di forza nei paesaggi e nell'ambientazione – la steppa kazaka con le sue distese a perdita d'occhio battute dal vento – più che nella storia o nei personaggi. Offre anche momenti di divertimento surreale (il veterinario con il cammello bendato) e altri che sfiorano il documentario (il parto della pecora), ma rimane un po' confinato a un esotismo da festival e nel complesso non direi di averlo trovato molto avvincente. Non male comunque la regia, capace di seguire i numerosi personaggi e di rendere contemporaneamente giustizia all'ambientazione anche con l'aiuto di qualche bel piano sequenza.
No avvincente proprio no, ma estremo e in tante maniere diverse intrigante e sorprendente.
Il modo di intendere l'occhio della macchina da presa è veramente innovativo, forza ogni convenzione e ogni patto finzionale e ibrida sul serio il massimo della finzione con il massimo dell'approccio documentaristico.
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