Pur con tutti i pregiudizi positivi dai quali si può partire di fronte ad un film che arriva dalla vittoria dell'Orso D'Oro al Festival di Berlino, lo stesso Il Canto di Paloma non convince.
Per carità gli elementi da buon film ci sono tutti: intenzioni alte, velleità minimaliste, un tema originale, la volontà di affrontarlo tangenzialmente e dalla parte delle vittime e infine anche una certa arroganza che non guasta mai. Eppure la noia stravince su qualsiasi altro possibile contenuto, affossandolo fino a farlo scomparire.
Si perchè la semi-esordiente Claudia Llosa gira con grande sapienza, ha idee molto precise e referenti chiari. Sta sempre attaccata alla sua protagonista, cerca una dimensione visuale pittorica nella quotidianità, senza esagerare troppo con l'artificiosità delle immagini e soprattutto si interessa alle stranezze del reale.
Tutto il film gira infatti intorno ad una stranezza, cioè al fatto che in Perù esista questa diceria secondo la quale le bambine nate (e allattate) da donne violentate contraggono dalla tetta una malattia che in sostanza le priva dell'anima. La protagonista, oggi ventenne e quindi nata negli anni '80 (l'epoca degli stupri di guerra), non ha vissuto i drammi della guerra tuttavia non ne è fuori. La credenza popolare l'ha privata dell'anima e la paura (poco motivata) di ricevere violenze la spinge a tenere una patata nella vagina per impedire intrusioni, con tutte le conseguenze sanitarie immaginabili.
Insomma un'idea forte che la regista affronta incrociandola con le canzoni popolari, il modo di vivere il matrimonio tradizionale, l'esigenza di integrazione nella società e tanti altri temi che inquadrano la questione (addirittura anche il conflitto di classe). Eppure alla fine, nonostante tutto lo sforzo e i momenti che alleggeriscono, lo stesso il film sembra girare a vuoto, incapace di portare a compimento quella riflessione che si propone di fare, incapace cioè di prendere tutti questi elementi e presentarli con uno svolgimento che crei senso.
Per carità gli elementi da buon film ci sono tutti: intenzioni alte, velleità minimaliste, un tema originale, la volontà di affrontarlo tangenzialmente e dalla parte delle vittime e infine anche una certa arroganza che non guasta mai. Eppure la noia stravince su qualsiasi altro possibile contenuto, affossandolo fino a farlo scomparire.
Si perchè la semi-esordiente Claudia Llosa gira con grande sapienza, ha idee molto precise e referenti chiari. Sta sempre attaccata alla sua protagonista, cerca una dimensione visuale pittorica nella quotidianità, senza esagerare troppo con l'artificiosità delle immagini e soprattutto si interessa alle stranezze del reale.
Tutto il film gira infatti intorno ad una stranezza, cioè al fatto che in Perù esista questa diceria secondo la quale le bambine nate (e allattate) da donne violentate contraggono dalla tetta una malattia che in sostanza le priva dell'anima. La protagonista, oggi ventenne e quindi nata negli anni '80 (l'epoca degli stupri di guerra), non ha vissuto i drammi della guerra tuttavia non ne è fuori. La credenza popolare l'ha privata dell'anima e la paura (poco motivata) di ricevere violenze la spinge a tenere una patata nella vagina per impedire intrusioni, con tutte le conseguenze sanitarie immaginabili.
Insomma un'idea forte che la regista affronta incrociandola con le canzoni popolari, il modo di vivere il matrimonio tradizionale, l'esigenza di integrazione nella società e tanti altri temi che inquadrano la questione (addirittura anche il conflitto di classe). Eppure alla fine, nonostante tutto lo sforzo e i momenti che alleggeriscono, lo stesso il film sembra girare a vuoto, incapace di portare a compimento quella riflessione che si propone di fare, incapace cioè di prendere tutti questi elementi e presentarli con uno svolgimento che crei senso.
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