Il consueto film annuale di Pupi Avati tocca stavolta il tema dell'anzianità, ovvero del diventare anziani e contemporaneamente tornare all'inizio, tornare bambini per effetto dell'alzhaimer. Una trovata realista, la malattia che provoca una regressione mentale, unita a suggestioni fantastiche, ricordi inevitabilmente felliniani che mischiano mistico e materiale, per raccontare di un uomo che ad un certo punto, inconsciamente tira le somme di un'esistenza.
Queste le intenzioni di Avati, che gira il film anche con qualche guizzo in più rispetto al solito (atmosfere vagamente ricercate per i ricordi padani e alcuni momenti sporcati, ma solo di qualche schizzo, d'orrore), ma che inevitabilmente ristagna nella solita insipienza, nel solito moralismo e nella solita nostalgia un tanto al chilo. Non è infatti tanto quel che viene fatto o mostrato di deprecabile ma quello che non viene fatto a fronte delle aspirazioni. Non c'è mai vera dialettica, vera tensione, vero confronto, nè mai ci sono immagini che parlino, momenti che rimangano, idee che colpiscano.
Il problema è che nel cinema annuale di Avati, solo la parte di annualità, cioè la capacità di produrre in serie film che rientrano sempre del proprio costo, è stimabile. Il resto sono storie labili labili, che inquadrano stereotipi umani con la pretesa di scavare per svelarne contraddizioni ma soprattutto sentimenti. Questo svelamento tuttavia è sempre la solita operazione intellettuale e non sentimentale, ovverno un pattern riconoscibile fatto di cerchio e botte, cioè di scena deprecabile e scena salvifica alternate, ying e yang uno accanto all'altro come idea di complessità. Sembra davvero una produzione in serie, ma senza la giustificazione commerciale (che la rende quasi nobile), bensì con una pretesa intellettuale (che la rende illusoria).
Queste le intenzioni di Avati, che gira il film anche con qualche guizzo in più rispetto al solito (atmosfere vagamente ricercate per i ricordi padani e alcuni momenti sporcati, ma solo di qualche schizzo, d'orrore), ma che inevitabilmente ristagna nella solita insipienza, nel solito moralismo e nella solita nostalgia un tanto al chilo. Non è infatti tanto quel che viene fatto o mostrato di deprecabile ma quello che non viene fatto a fronte delle aspirazioni. Non c'è mai vera dialettica, vera tensione, vero confronto, nè mai ci sono immagini che parlino, momenti che rimangano, idee che colpiscano.
Il problema è che nel cinema annuale di Avati, solo la parte di annualità, cioè la capacità di produrre in serie film che rientrano sempre del proprio costo, è stimabile. Il resto sono storie labili labili, che inquadrano stereotipi umani con la pretesa di scavare per svelarne contraddizioni ma soprattutto sentimenti. Questo svelamento tuttavia è sempre la solita operazione intellettuale e non sentimentale, ovverno un pattern riconoscibile fatto di cerchio e botte, cioè di scena deprecabile e scena salvifica alternate, ying e yang uno accanto all'altro come idea di complessità. Sembra davvero una produzione in serie, ma senza la giustificazione commerciale (che la rende quasi nobile), bensì con una pretesa intellettuale (che la rende illusoria).
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