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13.2.12

Shadow dancer (2012)
di James Marsh

CONCORSO
BERLINALE 2012

Anni ‘90, Irlanda del Nord. Colette, al centro delle lotte dell’IRA contro il governo, viene presa dalla polizia, la quale le offre la possibilità di non finire in galera (e quindi non essere allontanata dal figlio di 10 anni per altri 25) ma collaborare diventando in sostanza una spia. La prima occasione è un attentato che i suoi compagni stanno preparando. Ma se la polizia è pronta a mettere in atto la minaccia al primo tentennamento, il rischio di essere scoperta dall’IRA è altrettanto agghiacciante.

Tutta la filmografia di James Marsh è caratterizzata da una bulimica voglia di consumare il passato, passarlo al setaccio, rielaborarlo alla lente dei sentimenti dietro ai fatti e proporlo sotto forma di storia. Il suo è cinema della ricostruzione di fatti trapassati (cioè che sono passati pure per i protagonisti di una storia già ambientata nel passato), sia quando è documentaristico che quando è di finzione. Siano le imprese anni ‘70 del Man on wire francese a New York, sia il giallo anni ‘60 di Red riding, sia il folle esperimento post-hyppie di Project Nim che infine questo thriller spionistico anni ‘90, in tutti i film di Marsh la storia si compone a partire dai ricordi, dalle testimonianze, da file, numeri o fatti ritrovati, e così si forma davanti agli occhi dello spettatore. Il film in sè è la ricostruzione della storia.

Ecco perchè allora quando non si “diletta” con documentari da Oscar, il regista britannico sceglie film polizieschi o di spionaggio, generi basati sul disvelamento di un mistero.
Anche in Shadow dancer dunque il passato condiziona il presente e le istituzioni operano una violenza burocratica o mentale sugli individui, in una cornice fotografata con toni sbiaditi (come le foto invecchiate) per gli interni e il gelo dei colori freddi per gli esterni irlandesi. E sebbene racconti una storia di inganni, tradimenti e passioni ingannevoli (basi che altrove sarebbero state ottime per un noir di prim’ordine), Marsh sembra disinteressarsi al fascino della perdizione per lasciarsi contaminare da quello dell’archivismo.

Chi ha parlato? Chi è daccordo con chi? Che prove ci sono? Dov’è la traccia dei soldi? Sono le domande più impellenti, di un film che non si chiede mai cosa provino i suoi personaggi e vede i sentimenti come un altro modo attraverso il quale un personaggio manipola l’altro, influenzando gli eventi. Questa è l’originalità maggiore di un regista con la mano leggera ma lo stile di ferro e, contemporaneamente, il limite maggiore del film.

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