L'avevo perso varie volte e lo sono andato a recuperare al cinema, perchè benchè le sorelle Comencini non mi facciano impazzire devo ammettere che Francesca mi ha colpito con il cortometraggio sul terremoto a L'Aquila. E poi un film di Bigazzi è un film di Bigazzi.
Che le Comencini (con tutte le dovute differenze tra di loro) facciano un cinema smaccatamente alto borghese è ormai fatto assodato, come è assodato che siano l'emblema di un modo italiano di fare film degli ultimi anni che non è proprio il massimo del vanto. Un cinema che sostanzialmente non racconta grandi storie ma cerca di affrontare una dialettica sola, una contraddizione o tensione unica, declinandola in varie maniere lungo tutto l'arco dell'opera.
Così anche in Lo spazio bianco non succede molto nè tra i personaggi nè al loro interno, non c'è grande evoluzione o clamorosi colpi di scena, non c'è insomma quello che si definisce un racconto classico ma più una serie di considerazioni che ruotano attorno alla protagonista, alla sua infelicità e all'attesa dell'uscita dall'incubatrice (viva o morta) della figlia nata prematura.
Intorno c'è Napoli descritta tangenzialmente per piccoli quadri. Ci sono le difficoltà di fare l'insegnante in una scuola serale per adulti, c'è la piccola gente stretta dallo strozzinaggio, c'è la povertà (guardata e non vissuta), c'è l'immigrazione e c'è la difficoltà di stringere legami. Tutto accennato oppure reso dalle immagini di Bigazzi che come sempre sono straordinarie (e non è un'esagerazione).
In un film che scorre sostanzialmente indolore (e non certo per volontà dell'autrice) sono alcune idee visive a regalare momenti di cinema, come subito l'apertura con Margherita Buy che balla in una strana solitudine sebbene circondata da persone (da cui anche la locandina), più forte di mille parole senza ancora aver iniziato a raccontare.
Che le Comencini (con tutte le dovute differenze tra di loro) facciano un cinema smaccatamente alto borghese è ormai fatto assodato, come è assodato che siano l'emblema di un modo italiano di fare film degli ultimi anni che non è proprio il massimo del vanto. Un cinema che sostanzialmente non racconta grandi storie ma cerca di affrontare una dialettica sola, una contraddizione o tensione unica, declinandola in varie maniere lungo tutto l'arco dell'opera.
Così anche in Lo spazio bianco non succede molto nè tra i personaggi nè al loro interno, non c'è grande evoluzione o clamorosi colpi di scena, non c'è insomma quello che si definisce un racconto classico ma più una serie di considerazioni che ruotano attorno alla protagonista, alla sua infelicità e all'attesa dell'uscita dall'incubatrice (viva o morta) della figlia nata prematura.
Intorno c'è Napoli descritta tangenzialmente per piccoli quadri. Ci sono le difficoltà di fare l'insegnante in una scuola serale per adulti, c'è la piccola gente stretta dallo strozzinaggio, c'è la povertà (guardata e non vissuta), c'è l'immigrazione e c'è la difficoltà di stringere legami. Tutto accennato oppure reso dalle immagini di Bigazzi che come sempre sono straordinarie (e non è un'esagerazione).
In un film che scorre sostanzialmente indolore (e non certo per volontà dell'autrice) sono alcune idee visive a regalare momenti di cinema, come subito l'apertura con Margherita Buy che balla in una strana solitudine sebbene circondata da persone (da cui anche la locandina), più forte di mille parole senza ancora aver iniziato a raccontare.
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