Sdraiato a dormire di notte in mezzo ad altri schiavi un uomo si gira e vede accanto a sè una donna sveglissima che lo fissa intensamente, si avvicina e gli prende la mano in modo da usarla per procurarsi un piacere che non ha nulla a che vedere con il sentimento ma solo con la soddisfazione dell'esigenza di un corpo. Finito l'atto, piange.
Che quella scena sia importante è evidente dalla maniera in cui Steve McQueen ha fatto di tutto per metterla in apertura, costringendosi poi ad un gioco di flashback per poter raccontare tutta la storia per bene. Ma è anche una delle molte che potrebbero essere separate dal film senza che nulla cambi, momenti che vivono da soli e paiono molto più forti della trama che invece gioca sulle solite dinamiche di disprezzo di una malvagità estrema (per questo l'unico carattere interessante è quello ambiguo di Benedict Cumberbatch).
Ci sono realmente poche conquiste contenutistiche per un film come 12 anni schiavo, cioè per un film che si propone di raccontare l'orrore della schiavitù. E questo perchè l'orrore dei fatti veri al cinema è un doppio vincolo: impone rispetto e distanza (non lo si può trattare con il godimento della sofferenza proprio dell'horror) ma anche una continua esibizione del suo abisso. Guardare ma guardare da lontano, è il medesimo problema di moltissimo cinema sull'Olocausto, storie anche molto dure che per definizione non possono mettere nulla in dubbio, solo fornire conferme su conferme, in un'eterna ripetizione di quel che già pensiamo e una continua esasperazione dei propri toni.
A fronte dunque della solita sceneggiatura canonica e dal grado zero d'inventiva, il film di Steve McQueen prova a trovare il senso ultimo di cosa sia essere uno schiavo in quegli anfratti in cui non si è mosso nessuno. Si parte, come detto inizialmente, dalle esigenze del fisico (perchè per McQueen nulla si dà senza le costrizioni a cui porta la fisiologia umana) per cercare di arrivare ad un comprensione del fenomeno che sia più istintiva che celebrale (per quello ci pensa la didascalica trama).
Risvegliarsi di colpo, nel buio e, da che si era liberi, sentire ad ogni movimento un rumore fortissimo di catene fino a scoprire di essere stato incatenato. La forza della storia vera di Solomon Northup è il fatto di non raccontare di uno schiavo come altri ma di una persona normale, libera e dotata di un intelletto coltivato, che di colpo si ritrova schiavizzato. E in una scena sola, in una soluzione d'illuminazione e in una di sonoro c'è tutto, non vedere nulla ma capire tutto dal rumore (che al cinema è il senso che sostituisce il tatto).
Può una scena valere un film intero e fornire così tanto abbrivio da condurlo alla meta da sola?
6 commenti:
Prima foto a sx
Quello a dx è GParker
é uguale
identico
dici Fassbender?
beh si è un po' un me in brutto....
Attendo con molta trepidazione questo film, terza prova di un regista che finora ha sfornato due film eccezionali...
secondo me questo è molto più ordinario e ovviamente vessato dal tema ingombrante
ma ha i suoi momenti
Non che i primi due (soprattutto Hunger) non avessero temi ingombranti, eh! ^^
Comunque sì, me lo immagino più "hollywoodiano" (non a caso ha tutte quelle candidature agli Oscar).
esatto
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