CONCORSO
MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
La storia di Angels Wear White può esistere solo in un contesto in cui la prevaricazione è l’unica maniera di vivere. Altrove non sarebbe andata in questo modo.
Una ragazza che lavora in un hotel vede dalle videocamere di sicurezza che due bambine stanno respingendo l’ingresso nella loro camera di un uomo, che alla fine riuscirà ad entrare, e intuendo che sta accadendo qualcosa di grave riprende quelle immagini con il proprio cellulare. Le due del resto avevano già ordinato della birra in precedenza. Quando poi la polizia tornerà, spiegando che c’è stata una violenza sessuale sulle bambine e che vogliono vedere il video di sorveglianza, la direzione dell’hotel dirà di non averlo per non alimentare problemi (non sono proprio in regola). La famiglia delle bambine cercherà di incastrare il potente colpevole, e l’unica con una prova sarà l’inserviente, anche se nessuno lo sa. Lei però sembra volerla usare per il proprio tornaconto.
In Angels Wear White i criminali non sono le uniche figure negative, anche i protagonisti sono terribili, sono biechi e nonostante empatizziamo con loro e siamo portati a comprendere le loro ragioni, cercano di tirare a campare tramite la sopraffazione.
Si tratta della Cina che il cinema d’autore ci racconta almeno dagli anni ‘90, quella in cui tutti, dai potenti ai marginali, cercano di avere la meglio sul prossimo, in cui ogni scusa è buona per fregare qualcuno, per trovare una scorciatoia per i soldi.
Vivian Qu, che già aveva prodotto un capolavoro ambientato in un mondo non diverso (Fuochi D’Artificio In Pieno Giorno), qui cerca il punto di vista delle ragazze e delle donne. Oltre alle bambine e all’inserviente ci sono un avvocato che tenta di comprendere cosa sia successo e una collega dell’hotel coinvolta in un giro di prostituzione (ma con gioia).
La scoperta più grande del film sarà chi sono davvero queste persone, da dove vengono, che giri hanno fatto, che vita conducono e quindi cosa le spinga. E non ci sarà grande speranza alla fine.
Angels Wear White non rinuncia ad una certa facile presa di posizione, cioè a stare dalla parte dei bambini, a preoccuparsi del loro futuro e di come sono concepiti in Cina. Però è anche vero che nello sguardo di Vivian Qu c’è una secca determinazione che è ammirabile. Il suo modo di raccontare queste persone, i problemi che hanno e soprattutto le maniere giuste o sbagliate per risolverli, è una mesta constatazione che non vive di nessun acuto ma ha un tono medio apprezzabile.
Su tutto però domina un cinismo sentimentale così netto e nichilista, così privo di fiducia nell’umanità, così determinato a colorare di nero anche i comprimari, che alla fine il film esce fuori con una coerenza invidiabile. Forse è un inferno essere donna o solo marginale in Cina, forse davvero l’unica speranza è diventare peggiore, essere cinico, cercare di mettere sotto il prossimo per rimanere a galla.
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