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17.5.18

BlacKkKlansman (id., 2018)
di Spike Lee

CONCORSO
FESTIVAL DI CANNES
Senza dubbio è questo lo Spike Lee migliore. Non quello a ruota libera dei progetti piccoli e liberi come Bamboozled o Chi-raq, non quello su commissione di Miracolo a Sant’Anna o il remake di Old Boy, né quello che parla di consapevolezza nera e appropriazione bianca di Da Sweet Blood of Jesus, ma quello che pensa un film con l’obiettivo di incassare e ha sufficiente margine per poter mettere in scena la violenza che vede come conseguenza inevitabile della convivenza razziale (che in lui coincide sempre con quella culturale). Bianchi e neri (ma altre volte anche italiani, cinesi ed ebrei) che non possono non entrare in conflitto, che si odiano e si temono al tempo stesso, che non si capiscono mai.

BlacKkKlansman è una specie di strano omaggio alla blacksploitation che sembra la versione di Spike Lee di un film di Tarantino (lui che l’ha spesso criticato ora è come se gli volesse mostrare come si fa quel tipo di omaggio), cioè un’opera retrodatata agli anni ‘70 che rimette in scena altro cinema e sembra vivere nel mondo dei film più che nel nostro. Un film, per concludere i paragoni tarantiniani, che affronta la storia per poter dare allo spettatore la vendetta e la soddisfazione violenta che offrono i film d’azione ma a scapito dei colpevoli della storia.

A partire dal libro in cui l’ex poliziotto Ron Stallworth racconta di come si infiltrò nel Ku Klux Klan negli anni ‘70 Spike Lee gira un film che oltre a Tarantino a tratti richiama i buddy cop bianco + nero di Shane Black (il bianco è il suo partner Adam Driver), in cui a Colorado Springs un afro americano vuole sgominare il locale partito suprematista bianco e per farlo imbastisce un’operazione sotto copertura tra movimenti studenteschi afroamericani, politici realmente esistiti e un’aria di guerra pronta ad esplodere. Un film con un inizio da urlo tra realtà finzione, ricostruzione, linguaggi, stili e un montaggio elettrico che coglie sempre di sorpresa (che per fortuna non mollerà il film fino alla fine) che se non appartenesse a Spike Lee ma ad un regista non noto, all’opera prima o seconda, ci sarebbe da gridare al genio. Invece con lui ci siamo abituati.

Oltre a questo ci sarà in BlacKkKlansman un discorso lungo, completo e chiarissimo di un leader vicino alle Pantere Nere che impressiona per stile e messa in scena, per chiarezza e complessità, per come comunica la forza della parola. Ci sono scuole di pensiero, c’è la sensazione della polveriera e due poliziotti che in questo clima sembrano divertirsi a rischiare la morte come in un film degli anni ‘80 (unico anacronismo in questo moderno blacksploitation). Quella tra culture in America è una guerra e non si può non prendere parte, come in Casablanca anche qui la chiusura sarà all’insegna della nascita di una coscienza d’appartenenza pienamente formata e ragionevole e non solo nel protagonista (bello come Adam Driver, dopo qualche mese da infiltrato nel KKK, dica: "Non sono mai stato parte della comunità ebrea, non mi definisco nemmeno tale, non mi ha mai interessato ma a furia di sentire tutti questi discorsi...").

Sono gli anni ‘70 ma i richiami all’oggi sono così chiari da essere urlati (il senatore suprematista usa gli slogan di Trump da “America first” a “Make America great again”, alla fine vediamo immagini vere di manifestazioni naziste in America nella Virginia), con una smaccata voglia di tracciare paralleli abbastanza superflua. Il film sarebbe riuscito a farlo anche senza. Perché, come detto, siamo nel territorio del miglior Spike Lee, quello della battaglia delle idee in un contesto da cinema commerciale, obbedendo alle regole del genere, giocando con la tensione e la commedia, tracciando dei personaggi convenzionali in mondi di cui solo lui, pur parteggiando smaccatamente, riesce a cogliere la complessità.

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