Fin da prima della sua prima apparizione la trasposizione di Twilight da romanzi di successo a film (di sicuro successo) è stata etichettata come la degenerazione del mito del vampiro, il brutto per antonomasia e il simbolo dell’infantilismo al cinema.
In realtà quello che il primo film di Catherine Hardwicke aveva mostrato nel 2008 era un teen movie spinto sul romanticismo che sapeva fare ottimo uso del materiale letterario sul grande schermo. La scuola, i desideri, i non detti e non fatti che lasciano intuire un mondo sentimentale da non esprimere a parole e poi le musiche e l’estetica emo suggerita senza esagerare dai colori poco saturi e da una tavolozza virata sul livido, tutto sembrava puntare su un aggiornamento fatto con gusto delle dinamiche e idee che sono state espresse a intervalli regolari da ogni generazione di film adolescenziali. Poi la degenerazione.
Cinque film in cinque anni con una regolarità impressionante, appuntamento fisso dell’autunno dal 2008 a oggi. Delle molte saghe cinematografiche che abbiamo visto e stiamo vedendo in questi anni, quella di Twilight più di tutte si è avvicinata al modello della serialità televisiva, il cui successo è stato uno degli elementi che hanno spronato la produzione cinematografica a moltiplicare i film di successo al di là di quanto fatto negli anni precedenti.
Serie e miniserie per il cinema, quelle da un numero di episodi determinato (come i Batman di Christopher Nolan) e quelle dal numero allungabile a seconda del successo, fino a quelle più o meno procedural, autoconclusive e legate al medesimo filone ma blandamene unite da una trama sottile (Final Destination, Saw), tra tutte queste Twilight è stata la più regolare nelle uscite, legata ad un appuntamento annuale, a un cast quasi immutabile (pochissimi i nuovi innesti nel corso dei 5 film) e per questo davvero somigliante al format televisivo cui aspira e di cui si dichiara erede nel lungo carrello di ritratti sui titoli di coda di Breaking Dawn Parte 2: la soap opera.
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