Per il suo secondo lungometraggio di finzione Fisher Stevens (attore di Corto circuito, negli anni diventato comprimario di lusso in cinema e serie tv, con una bella faccia da spia infame del carcere) non si vergogna di mettere in scena la sua volontà di camminare nelle orme di Tarantino, anche se queste sono palesemente più grandi delle sue, mettendo in scena una storia di vecchie glorie che ritornano insieme un'ultima grande giornata, a suon di classici soul anni '70, dialoghi banali tra un'azione violenta e l'altra, vendette da godere e coolness.
Al Pacino esce di galera dopo 24 anni in cui ha tenuto la bocca chiusa, il socio di una vita Christopher Walken lo attende fuori (ma con il compito di ucciderlo) e Alan Arkin si unirà brevemente ai due per un raid punitivo effettivamente violento ma immacolato dal punto di vista morale (la più classica delle signorine maltrattate la cui vendetta va aiutata).
Uomini di parola è la 25esima ora ripensato per un ultrasettantenne ma scritto da un esordiente nelle sceneggiature per il cinema con diversi decenni di meno sulle spalle, un film di gangster e di vendetta ripiegato sulla nostalgia per i bei vecchi tempi, un quasi-polar in cui l'amicizia è l'unica cosa che conta in un mondo di furti, omicidi e tradimenti ma contornato di un ambiente acquietato e buoni sentimenti da nonnino. Violenza che non si sente, disperazione moderata dalla bontà.
Non nascondono la loro età i tre protagonisti ma anzi la cavalcano come fa del resto la sceneggiatura. Posture curve, vestiti troppo larghi, punto vita dei pantaloni molto sopra il normale e rughe bene in vista. Le 24 ore di sesso con viagra, bistecche, corse in auto, inseguimenti con la polizia e qualche sana sparatoria sono l'occasione per il più ovvi dei bilanci di una vita e dimostrazione di amicizia, ma anche per la più ammorbante delle seconde occasioni di recuperare il rapporto con la nipotina e una improponibile visita in extremis in chiesa (!).
Nel non voler tradire l'idea del gangster pericoloso pronto a tornare in azione viene tradita ogni verità finzionale, ogni convenzione che rende il gangster movie tale. In Uomini di parola l'ansia di realizzare l'ennesima parabola action-geriatrica fagocita non solo lo stile del film ma anche qualsiasi possibile reale idea di rappresentare il diventare vecchi o anche solo l'arrivare alla fine della vita. L'idea del gangster che ormai è invecchiato e fuori dal proprio tempo non è infatti nuova nè perdente in sè, quel che è perdente semmai è la volontà di tramutare il film in un'apologia di tutto ciò, imprimere nella narrazione un punto di vista così ineludibile e così condizionante da snaturare il senso stesso del genere di appartenenza, trasformando ogni trovata (anche quelle rubate e di più comprovata efficacia) in melassa molliccia e appiccicaticcia che consoli lo spettatore coetaneo.
Anche i classici di Sam & Dave suonano insopportabili se caricati dell'aria dei bei tempi andati e dell'autoassoluzione.
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