CONCORSO
Non capita di frequente di vedere in concorso in uno dei festival di primo piano un film come Philomena, melodramma agrodolce che non ha timore di strappare a forza le lacrime ma anche la ruffianeria di sanare il magone con continue ironie e una caratterizzazione dei personaggi definibile solo come "adorabile". Solitamente infatti questo genere di film molto indulgenti con il pubblico (categoria: un sorriso per ogni lagrima), che non cercano discorsi complessi ma anzi dividono nettamente i personaggi in buonissimi e cattivissimi fino a portare al trionfo sentimentale i primi e all'infamia spietata i secondi, sono materia schifata dal mondo del cinema più alto e intellettuale, melassa da grande pubblico. Per questo la presenza in concorso di Philomena va considerata come un merito della gestione Barbera, che non si è fermata di fronte a tutto ciò e ha deciso di mostrare lo stesso questo lavoro di rigorosa perfezione filmica, povero di contenuti ma ricco di cinema vero.
La storia è quella reale, presa da un libro giornalistico, di un'anziana e adorabile signora per bene irlandese che dopo 50 anni trova il coraggio di cercare il figlio che le suore l'avevano costretta a vendere da giovane, ad aiutarla un cinico giornalista politico declassato alle storie strappalacrime da uno scandalo. Come è facile intuire, tra le mille sorprese della loro indagine, i due stabiliranno un rapporto forte che incrinerà la corazza di diffidenza e alterigia del secondo come il film vuole fare con le ritrosie del pubblico più snob.
Su quest'impianto semplice (e non pensate che le molte svolte siano più complesse di così! Philomena non stupisce grazie alla storia ma grazie a com'è raccontata) Coogan e Pope scrivono una sceneggiatura misurata ed esilarante, commovente e coinvolgente, che gioca sporchissimo (primi piani sulle lacrime, musica crescente, colpi allo stomaco, cattivi che digrignano i denti) ma lo fa con un'abilità narrativa impressionante. L'impasto di Coogan e Pope ha la capacità di trasfigurare la realtà in melò ad un tale livello di immersione nello svolgersi del racconto da rendere imprevedibili le svolte più tipiche del genere anche per il pubblico più sofisticato.
L'amore dei due sceneggiatori, si capisce, è per le storie umane e i meccanismi narrativi più semplici. Philomena è una signora che come tante legge romanzetti rosa scontatissimi stupendosi dei soliti colpi di scena e rimanendone coinvolta, che si informa su giornalacci e storie di cronaca, e che vivrà una serie di eventi non diversi da quelli che l'appassionano su carta.
La forza del film è quella di far sì che il pubblico rida di lei e della sua semplicità proprio come fa il suo cinico e sofisticato aiutante (ad esempio quando racconta con passione gli intrecci dei libri che legge), per poi coinvolgerlo in una trama che lo porterà a commuoversi e stupirsi (durante il colpo di scena più triste si sono sentiti dei mesti "Noooooooo" di empatico dispiacere nella sala veneziana) per svolte non diverse da quelle derise poco prima.
La storia di Philomena è insomma raccontata in maniera non diversa dai romanzetti rosa e nel fare questo, cioè nel portare il pubblico in quel terreno di emozioni basilari e routinarie da cui si illude di essere alieno, dimostrare la forza di un simile racconto e la stupidità di qualsiasi atteggiamento snob o ghettizzazione dei generi narrativi.
E se c'è qualcuno che è davvero da lodare per tutto ciò è Stephen Frears, straordinario narratore che dirige i suoi protagonisti con una misura invidiabile e mette in scena la sceneggiatura con la massima efficacia non mancando nemmeno un appuntamento con la risata o l'emozione, grazie ad un rigore e una serie di scelte morali, etiche ed umane di spessore e rara provocazione.
Infatti trattare la materia umana più ricattatoria, nella maniera più dignitosa possibile appare come lo schiaffo più duro nei confronti degli spettatori più alteri.
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