La cavalcata di Peter Jackson attraverso il libro di Tolkien si conclude con un film che espande a dismisura la parte terminale della storia. La battaglia delle 5 armate prende tutte le differenze che erano riscontrabili tra libro e film nei precedenti capitoli e le espande, innestato robustamente sulla parte riguardante la battaglia successiva alla morte del drago, sfrutta i conflitti per dare più senso ai cambiamenti che prima avevamo solo intuito e per portare a termine le trame imbastite intorno a loro (principalmente quella di Kili e Tauriel). Infine inserisce più di un ponte (alcuni molto grossi) verso Il signore degli anelli. Di tutto ciò solo la volontà di collegarlo molto all'altra trilogia pare una decisione azzeccata.
Dei 3 film in cui Jackson ha tagliato Lo Hobbit forse questo è quello in cui più sono evidenti le differenze con il testo di partenza e non solo nei termini di trama o nell'uso dei personaggi quanto nella maniera in cui sono agiti. Per la prima volta nei 6 film che Jackson ha dedicato al lavoro di Tolkien sembra di non riconoscere in controluce il lavoro dell'autore originale, l'austerità della sua maniera di manipolare i caratteri e la secca asciuttezza con cui racconta i sentimenti. Jackson taglia le scene prediligendo un sentimentalismo d'accatto, si concentra su un linguaggio audiovisivo quanto più semplice e scontato possibile riducendo al minimo le trovate visive. Giunge qui a completamento quella mutazione di Lo Hobbit in melodramma che già si intuiva in La desolazione di Smaug, dopo un inizio folgorante che dà grandissimo senso al punto in cui è stata inserita la cesura tra il secondo e il terzo capitolo, il film sceglie la via melliflua, predilige i grandissimi conflitti agli espedienti piccoli e quasi casuali, mette enfasi su ciò che in origine non ne aveva e crea showdown clamorosi quanto prevedibili nel loro esito.
Nell'adattare l'ultima parte del libro la selezione di cosa mettere in scena e cosa no sembra essere ricaduta sui grandi scontri piuttosto che sui piccoli confronti, ai quali è riservato un trattamento un po' ingenuo. Arrivato al termine di un'esalogia che è riuscita a fondare un immaginario filmico tra i più influenti e importanti, intorno ad un testo la cui grandezza fa tremare le gambe, Peter Jackson sembra aver finito il fiato. Il cliffhanger con cui chiudeva La desolazione di Smaug è ripreso molto bene e si rivela una scelta perfetta (la migliore del film) ma superata quella parte c'è poco altro della forza cui il regista ci ha abituato e molto di quello che invece vediamo nei blockbuster meno inventivi.
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