Due coppie e un amico single che si conoscono da sempre una sera a cena iniziano a litigare per l'incredibile nome che due di loro voglio dare al figlio che stanno per avere. La lite e i battibecchi lasciano emergere sempre di più del loro passato, delle loro contraddizioni e del presente che viviamo. In due parole è questa la trama della commedia teatrale da cui Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte hanno tratto nel 2012 il film Cena tra amici, a cui Francesca Archibugi si è rifatta per questo remake italiano. Forse proprio per questa catena di debiti, per il suo rifarsi a qualcosa che già si rifà ad altro, Il nome del figlio somiglia ai remake migliori, quelli che prendono lo stretto indispensabile dal testo originale e ne ampliano lo spettro aggiungendo così tanto da deviarne la traiettoria verso lidi personali. Anche l'umorismo è lontano dal film francese e più vicino a quello sottotono, moderato e sparuto delle commedie di Francesca Archibugi. A furia di aggiungere il nocciolo si fa sempre più piccolo e alla fine "remake" diventa un aggettivo di vaga assonanza con la realtà.
L'idea della regista è di allontanarsi dalla dinamica di "Carnage", quella del solo scontro umano e sociale, lo scannarsi con garbo di due coppie che perdono ogni segno di civiltà e diventano sempre più bestie, per andare a rimestare nel rapporto irrisolto con il passato. In quella storia Francesca Archibugi ha visto la possibilità di raccontare quanto dell'eredità passata influenza il nostro paese e non a caso la parte migliore del film si materializza quando la cattiveria che i protagonisti hanno gli uni contro gli altri svela il loro ieri.
Nel presente dei protagonisti c'è un passato ingombrante, non a causa di eventi traumatici ma in quanto tale, in quanto passato. Le 4 persone hanno un rapporto con la loro adolescenza e la propria formazione così invadente da contaminare la vita presente, dalle conversazioni fino agli atteggiamenti. Figli di un grande uomo politico due e affascinati dall'epica di una famiglia così importante gli altri, sono tanto diversi tra di loro (per visioni politiche, atteggiamento, remissività e classe sociale) quanto in realtà uguali nella scarsa comprensione di quel che vivono e nella celebrazione del passato.
È evidente che i diversi equivoci causati dagli scherzi di uno di loro sono un modo come un altro per scatenare l'incomprensione latente, eppure nonostante Francesca Archibugi scelga di rimestare in luoghi, ambienti, personaggi e contesti eccessivamente personali (altissima borghesia intellettuale romana), il suo muoversi con dolly e/o droni su questa casa a due piani e lo spostarsi (come nel testo d'origine) tra scontri furiosi e riappacificazioni altrettanto improvvise ha una forza narrativa non da poco.
Non poteva mancare la tecnologia nel grande calderone della modernità, vista come sempre avviene nel cinema italiano al pari di un problema o al massimo di una fonte di ridicolo, mai come un'opportunità o un facilitatore. Nè nei momenti peggiori del film potevano man dei flashback abbastanza naive (quando va bene) e ruffiani (quando va male) sulla vita dei 4 dai giovani. Eppure nonostante tutto questo, alla fine, la decisione con la quale il film prende di petto quello che è il vero tema portante degli ultimi anni nel nostro paese, ovvero il rapporto irrisolto con la modernità che rispecchia quello irrisolto con un passato desiderato, conservato e ammirato con una dedizione fuori dal normale, lo rende seriamente più universale e sincero di quanto il contesto cerchi di attenuare.
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