FUORI CONCORSO
BERLINALE
Ogni cosa nel cinema di Wenders passa dai paesaggi. Se il suo coevo Herzog nei paesaggi ci penetra per combatterli, per mettere i suoi personaggi in una lotta folle contro una natura che non gli risponde ma lo stesso gli si oppone, come una forza superiore, Wenders invece i luoghi li attraversa e ogni volta quello che questi luoghi rappresentano si riflette nelle persone. C'è un senso di concordanza fortissimo tra lo sfondo e il primo piano nei suoi film, come se inevitabilmente i luoghi mutassero assecondando l'umanità e le vicende che ospitano.
Per questo al suo primo vero melodramma intimista, dopo più di 50 film, centra subito il segno, nonostante sia reduce da uno dei periodi peggiori della sua carriera di finzione. Nella storia di un uomo che per errore investe il figlio di una donna che non conosce e passa 17 anni, vedendo poco se non per niente la donna e il suo altro figlio sopravvissuto, convivendo separatamente da lei con questa perdita, c'è una ricerca metodica dello struggimento a partire dall'artificio che rivela l'incidente dilatando il tempo di scoperta con una camminata che, inizialmente sembra un modo per aumentare la portata emotiva della scena ma in seguito si rivela un dettaglio sentimentale più volte ripreso e sfruttato.
Tra freddo e caldo, neve all'esterno e interni bollenti di colori saturi, ombre accoglienti, zanzare onnipresenti (fino a che non vengono uccise in una metafora smaccata) e estati dalla splendida luce, Wenders sembra tentare un'impresa da Linklater: gettare una luce di inusitata chiarezza su un arco di tempo grandissimo (i 17 anni che seguono l'incidente) raccontato nel suo svolgersi. Il tempo nel suo agire, nel suo influenzare le persone e nell'impatto narrativo che ha. Sappiamo che il tempo sta passando, i protagonisti non si vedono, vivono vite parallele e li seguiamo entrambi. Sappiamo che non dimenticano e che in una certa maniera lo scorrere degli anni ha un effetto su di loro anche se non lo comprendiamo benissimo fino alla fine.
A metterci sulle piste inferenziali migliori sono per l'appunto gli sfondi, le città e le campagne, le nevi e i caminetti accesi che parlano meglio d'ogni altra cosa del genere cui il film vuole appartenere. Anche più della recitazione sempre sussurrata degli attori (tra tutti l'espediente più banale e fastidioso).
Il merito va ovviamente condiviso con Benoit Debie, il direttore della fotografia senza paura già sodale di Gaspar Noè nei suoi deliri al neon e di Harmony Korine per il fluo di Spring Breakers (altro film che si esprime al 50% con la fotografia satura di giorno e fosforescente di notte), e con Jospehine e Alain Derobe, i migliori stereografi d'Europa. Every Thing Will Be Fine è infatti un film in 3D, quel film d'autore drammatico in 3D che si era sempre ventilato come una possibilità nel futuro quando la terza dimensione veniva spinta dai grandi studi di produzione. Già al fianco di Wenders dai tempi di Il volo (il corto) e Pina 3D, i due lavorano con molta discrezione, evitando gli eccessi di Pina ma cercando realmente di cambiare l'immagine su cui lavorano.
Il risultato non è sempre fondamentale ma di certo ammirabile. In un film che fa dei paesaggi esteriori la miglior rappresentazione dei paesaggi interiori poterne gestire anche la distanza dal primo piano è un'idea formidabile.
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