CONCORSO
BERLINALE
Qualcosa di vero e qualcosa di falso. La vera storia di Gertrud Bell, considerata per decenni l'equivalente femminile di Lawrence d'Arabia, da una parte e le regole del melodramma dall'altra. La poetica dell'identità tra finzione e realtà di Werner Herzog incontra per la prima volta il cinema dei grandi generi, con un'adesione all'aspetto sentimentale della storia e a linguaggio visivo hollywoodiano che sorprendono. Mai Herzog si era dedicato così tanto allo scavo amoroso, mai si era interessato alla maniera in cui i suoi eroi dalle imprese impossibili vivono l'amore per l'altro sesso con tale romanticismo. Invece la sua Gertrud Bell al consueto lato ardimentoso e titanico tipico dei personaggi herzoghiani, affianca anche una dimensione sentimentale e struggente nella quale il regista non pare a suo agio ma che grazie a Nicole Kidman (il vero volto dello struggimento del cinema moderno) vive di inaspettati picchi che uniscono passione da romanzetto ad audacia autoriale.
Con una prima parte introduttiva, in cui vediamo come Gertrud Bell non si integri nel ruolo della donnicciola della buona società britannica di inizio novecento e successivamente parta alla ricerca di una vita più soddisfacente in luoghi remoti (l'allora decadente impero Ottomano), e una seconda più centrata sulla sua attività di spia, Queen of the desert è un trattato dalla parte della Bell che quando può minimizza e mette in ridicolo il mito di Lawrence d'Arabia. Per Herzog è questa donna a cui i beduini diedero il titolo di "regina del deserto", l'unica a spingersi in luoghi in cui nemmeno l'esercito si avventurava ed in grado di stringere legami con tutte le tribù in guerra, l'unico essere da ammirare in quelle distese di sabbia (che Herzog si appassiona a riprendere con il drone), perchè vera avventuriera. Noncome gli uomini che la circondano (al massimo un po' cretini) nè tantomeno come gli animali, totalmente indifferenti, presi solo da se stessi e impermeabili alla grandezza che li circonda.
Questo fa di Gertrud Bell la prima eroina femminile pienamente herzoghiana, dotata di quella resistenza e di quello spirito indomito che nemmeno una pallottola è in grado di fermare e sempre più alta o più grossa degli altri.
Arrivato quasi al quinto film di finzione americano con grandi star nel cast, Werner Herzog per la prima volta piega il suo stile alle esigenze del linguaggio hollywoodiano. Senza esagerare in concessioni inizia con il finale del film (la spartizione dell'impero Ottomano) per poi riavvolgere tutto e procedere linearmente, come avrebbe fatto Spielberg o Ridley Scott (a cui ha soffiato il progetto). Punteggia il film di un sottile umorismo, diverso da quello stralunato di Il cattivo tenente e molto più canonico. Addirittura si nega la sua tradizionale distanza dai personaggi, l'algida messa in scena che pone come un velo tra regista e protagonista, cercando invece la massima partecipazione sentimentale, non tiene la macchina rigida ma muove una steadycam in mezzo all'azione per stare attaccato agli attori e in un bellissimo momento chiede e ottiene da Nicole Kidman una spirale kinskiana di grande effetto.
Il risultato è un vero ibrido, sconfortante se si cerca il blockbuster ma esaltante per chi è deluso dagli ultimi film di finzione di Werner Herzog.
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