I primi 10 minuti di Diego Maradona sono una granata stordente lanciata sul pubblico. Contrappuntato da immagini da video a bassa qualità anni ‘80 girate dentro l’abitacolo di un auto che corre nel centro urbano vediamo un montaggio su musica elettronica anni ‘80 della carriera di Maradona tra giovanili, Boca Junior e Barcellona: gloria, gol, soldi e problemi, ascesa e crisi, infortuni, risse e coppe. Sembra il montaggio della scalata di un gangster in cui il male è parte stessa del trionfo. Solo alla fine di questo incredibile montaggio capiamo che quelle immagini di repertorio dall’auto con cui tutto si è aperto sono quelle del tragitto che porta Diego Armando Maradona allo stadio San Paolo di Napoli per la sua presentazione. Tutto ha condotto a questo.
Quest’attacco mostruoso che subito tira una linea tra tutto quello che è mai stato girato su Maradona e Diego Maradona di Kapadia sarà probabilmente parte del Nuovo Manuale Kapadia Del Linguaggio Cinematografico Documentario, testo di studio per chiunque voglia aggiornarsi sullo stato del cinema documentario e come si possano usare le tecniche del racconto di finzione per narrare qualcosa di realmente accaduto tramite immagini di repertorio.
Come già in Amy e Senna infatti Kapadia monta arbitrariamente e mira sempre ad indirizzare la comprensione del pubblico orientando le sue preferenze, proprio come un romanziere. Dopo un anno che (nel montaggio) è fatto di sconfitte, cori d’odio, insulti e cattive giocate arriva il cambio di passo e una vittoria contro la Juventus: “Tra la tifoseria napoletana sono stati accusati 5 svenimenti e 2 attacchi cardiaci” è il commento molto serio di un telegiornale dell’epoca.
Maradona è il suo protagonista, Kapadia lo coccola, gli vuole bene e ne fa un eroe tragico.
Tutta questa parzialità porta il film dal genere gangster a quello melodramma: tradimenti, amori non consumati e sofferenze comunicate con sguardi intensi. Diego Armando Maradona a Napoli trova una città di sconfitti, odiati da tutti e con loro vince umiliando chi li schiacciava, in cambio ottiene l’odio del paese intero e un amore che soffoca, da cui la società Napoli non lo lascia scappare incancrenendo tutto fino a sfociare nell’amarezza. La Camorra poi ci metterà la droga.
Purtroppo nel finale l’esigenza di spingere sul melò farà sì che ciò che inizialmente è epico diventi piano piano ruffiano. Nonostante il cuore del documentario siano gli anni a Napoli arriveremo alla fine arriveremo ad un’intervista televisiva del 2004 in cui Diego, sovrappeso, cambiato, martoriato, si commuove parlando della sua storia. La maschera sbruffona, ridanciana e a tratti arcigna e dura tenuta per tutto il documentario in barba al peso incredibile di accuse e cattiverie (che in questo film sono a senso unico) lì crolla e non è difficile commuoversi esattamente nel momento in cui lo pretende Kapadia il manipolatore.
Lo stesso c’è da applaudire alla capacità incredibile di questo regista di recuperare materiale mai visto (o sentito, nel caso di intercettazioni telefoniche clamorose) su un soggetto tanto raccontato. C’è da applaudire a come monti, alla chiarezza di idee e alla capacità di imbastire un racconto così fluido e armonico. C’è da applaudire a come legga la realtà e sappia darne una visione e alla maniera in cui si prefigge di usare lo sport non come bellezza (l’armonia del gesto, l’esaltazione del gol) ma come mezzo per narrare, pretendendo (e ottenendo) che il pubblico legga il gioco di Maradona: incerto quando serve, spavaldo quando è il caso e astioso quando gli alti e bassi della storia lo richiedono. Puro effetto Kulesov.
Non sarà mai uno spettacolo reale o rispettoso di tutte le parti Diego Maradona ma è uno spettacolo umano tragico e politico fantastico.
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