Niente ma proprio niente a che vedere con Pinocchio.
Sette anni dopo aver lavorato come art director per il film di Enzo D’Alò presentato alla Mostra del cinema di Venezia (e 12 anni dopo il bel corto dell’horror animato collettivo Fears of the dark presentato alla Festa del cinema di Roma), l’illustratore Lorenzo Mattotti gira un film tutto suo tratto da La Famosa Invasione Degli Orsi di Dino Buzzati (presentato ora al Festival di Cannes). L’impressione è di essere davanti ad un’operazione filologica di recupero di un immaginario tradizionale oggi fuori dal tempo con uno stile visivo che fonde Buzzati e Mattotti e che rilancia le forme tonde caratteristiche dell’illustratore in un mondo in gli vengono affiancati anche spigoli stilizzati, quasi una vivace e creativa presa in giro dei poligoni della computer grafica, e in cui lo sfondo è sempre più grande e importante dei personaggi.
Mattotti cita ampiamente le idee originali di Buzzati, non solo incorporandone i disegni nella forma di quadri nel palazzo del re, ma proprio partendo da quegli spazi e da quella passione per la metafisica in stile De Chirico, fatta di grandi strutture che proiettano ombre solide e totali in cui le figure viventi sono scarse se non assenti. Lo stile è pazzesco e perfetto per una storia a metà tra il vero (per le implicazioni teoriche e politiche) e falso (per il favolismo).
Rispetto a qualsiasi tentativo nel campo dell’animazione italiana questo film a produzione italofrancese suona avanti anni luce per come possiede la caratteristica chiave dell’animazione indipendente: creare un immaginario unico che utilizzi la sintesi del tratto e la potenza dei colori per astrarre i propri concetti.
Come prevedibile non si tratta anche di un prodotto allo stato dell’arte quanto a tecnica di animazione, è un po’ meccanico e sembra semmai “illustrato in movimento” ma non è questo il suo problema maggiore.
La Famosa Invasione Degli Orsi In Sicilia se contamina Buzzati con la modernità di Mattotti a livello grafico ne è totalmente schiavo a livello narrativo. Nonostante infatti qualche soluzione audace (il mago che è sia buono che cattivo a seconda che stia al servizio del potere o no) la storia degli orsi che scendono tra gli uomini per necessità e per recuperare uno di loro, che ne sovvertono il regno per creare un’utopia in cui orsi e uomini convivono, destinata a finire male per il potere corruttore della civiltà umana, è un apologo politico che mostra in ogni svolta di venire da un altro tempo. Non solo narrativamente è una storia poco scorrevole ma le uniche cose che dice sul nostro tempo e su di noi suonano come sentenze massimaliste.
Questa meraviglia visiva, così audace e di frontiera, non è mai supportata da un adeguato impianto narrativo, vetusto nelle interazioni e nelle svolte, e il risultato è che manca totalmente di fascino. Rimane solo una meraviglia.
Un doppiaggio suicida che a voci consolidate e note, capaci di scomparire e lavorare seriamente per il film (Guzzanti, Servillo) ne affianca altre presenzialiste o semplicemente pretestuosamente infilate a fini di marketing (Albanese, Camilleri), completa l’impressione che ciò che si è rischiato visivamente lo si è risparmiato narrativamente.
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