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24.3.20

The Invisible Man (id., 2020)
di Leigh Whannell

Ci voleva la Blumhouse per imprimere tutta un’altra spinta allo sforzo fino ad ora poco efficace della Universal di creare valore intorno ai suoi mostri classici, cioè l’Uomo Lupo, Dracula, La Mummia e L’Uomo Invisibile. Dopo numerosi tentativi almeno negli ultimi 15 anni di rimettere in circolo quelle storie in forma moderna che hanno portato modesti risultati sia in termini spettacolari che di incasso (figuriamoci strettamente cinematografici!), la “cura Blum”, cioè meno soldi, meno luci, meno esibizione e una concentrazione maniacale su un high concept (un presupposto che in sé contiene un’idea di svolgimento), compie il miracolo.
The Invisible Man di Leigh Whannell ribalta completamente il punto di vista e da un classico dell’orrore crea un film di tensione molto moderno, da una storia di un uomo invisibile ne crea una di una donna tormentata da qualcosa che non vede ma che agisce sulla sua psiche lo stesso.

L’operazione è sia filologica che moderna. Da un lato infatti per i mostri classici le donne sono sempre state sia una fonte di amore che vittime, eppure raramente quei film avevano adottato il loro punto di vista, le donne di solito sono vittime di cui non ci importa molto. Dall’altra calzando i suoi panni, il film vuole costruire lo statuto di vittima lavorando su sofferenza, dolore e cosa significhi avere paura di un mostro. The Invisible Man racconta di un amore malatissimo, di una donna che vive con un uomo che abusa di lei continuamente e la tormenta fisicamente e psicologicamente ma che nella prima scena fugge dalla casa/prigione e si rifugia dalla sorella. Lì scoprire che il suo fidanzato/aguzzino è morto. Con i giorni comincerà a convincersi che in realtà lui sia sempre lì, con lei, solo invisibile e che continui a rovinarle la vita.

È ciò che accade a chi ha subito quel trauma, il fatto che anche quando la persona non è più nella loro vita continua ad essere nella loro testa e gli effetti degli abusi continuano a tormentarli. Continuamente la videocamera si gira su ambienti vuoti, stimolando lo spettatore ad esplorarle con lo sguardo alla ricerca di qualcosa, ricrea cioè nello spettatore la dinamica tipica del paranoico, tramite la fantasia mette in scena la paranoia con cui vive una mente che ha subito abusi.

Leigh Whannell per almeno tutta la prima parte immagina un Paranormal Activity senza fantasmi ma con il medesimo stato d’inquietudine generato da immagini ferme, vuote, in cui si teme possa accadere qualcosa da un momento all’altro, in cui cerchiamo qualche traccia di invisibile, di paranormale, di letale. Come in quel film anche qui diminuendo il movimento, raffreddando tutto, arrivando a bloccare la messa in scena, ogni piccolo dettaglio, suono o movimento conta tantissimo. E per tutto quel tempo The Invisible Man è di gran lunga il film dalla maggior tensione degli ultimissimi anni. Senza rivali. Ci colpisce dove non ci aspettiamo di essere colpiti e siamo più vulnerabili.

Poi la trama compie un necessario salto in avanti, ma invece che peggiorare come la maggior parte dei film suoi simili al momento di superare il proprio presupposto, The Invisible Man prolunga benissimo le proprie idee anche in una seconda parte necessariamente più esplicativa e convenzionale. Non si nega un paio di scene clamorose per sorpresa e tensione (in soffitta e poi al ristorante) e chiude da maestro con un finale che è un piccolo gioiello di economia di scrittura e messa in scena, in cui la storia della protagonista si chiude con una forte provocazione, senza dare al pubblico tutte le informazioni di cui ha sete e obbligandolo a parteggiare con lei (che tigna Elizabeth Moss che piglio malato da vittima, che tormento umano che mette in scena!), che è la vittima, senza se e senza ma.

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