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7.4.20

The Hunt (id., 2020)
di Craig Zobel

A quanto pare il “manor gate” era vero, davvero i liberal americani rapiscono gli ultraconservatori più pericolosi per usarli come prede della loro battuta di caccia sportiva. Lo scoprono a loro spese proprio degli ultraconservatori, gli stessi che avevano cercato di esporre online e nei loro podcast il manor gate, ovvero lo scandalo che aveva esposto l’esistenza di un gruppo di ricchi democratici che hanno in mano il paese e che di nascosto si divertono a uccidere repubblicani di ferro, a cui pochi avevano creduto se non online. Quella che a molti pareva una fake news è quindi vera. Inizia con una corsa a prendere le armi in stile Hunger Games e procede con i primi omicidi all’interno quella che è una specie di riserva di caccia localizzata chissà dove.
Le vittime iniziano a lasciarci molto presto ma una, è evidente fin dall’entrata in scena, ha più cognizione degli altri di come sopravvivere.

Unendo la famosa, molto imitata e citata idea alla base di La Partita Pericolosa (il film di Schoedsack e Pichel del 1932) a You’re Next e usando tutto per raccontare la polarizzazione dello scontro sociale online dei nostri tempi, Lindelof e Cuse (non Carlton, cioè quello di Lost, ma suo figlio Nick) scrivono un film tutto di sceneggiatura, pieno di ironia e autoironia, in cui sia i ricchi liberal politicamente corretti, sia i più poveri complottisti di estrema destra americani sono macchiette (i primi si sentono in dovere di includere anche un afroamericano tra le vittime per ragioni di corretta rappresentazione delle minoranze, i secondi non fanno che mettersi in ridicolo).

The Hunt è un horror splatterone che ha come primo obiettivo divertire con svolte paradossali, dialoghi assurdi e tanto sangue, ma ha anche un secondo obiettivo così urlato che quasi rovina la festa a tutti. Non i democratici né i repubblicani sono il soggetto della storia ma la ferocia del dibattito online. Non sfugge che i due gruppi usano quelle stesse terminologie e locuzioni con cui si insultano sui social, e non sfuggirà alla fine il fatto che tutto è originato da un perverso giro di fake news che, pur non raccontando la verità, alimentano la fiamma dell’odio.
Gli sceneggiatori tuttavia fanno in modo che sia impossibile anche per il più scemo dei protagonisti perdere questo secondo livello di lettura, tuttavia il film è continuamente rischiarato da Betty Gilpin e anche per questo sempre superiore alla delusione che pensiamo di stare per provare.

Una volta tanto è un piacere dire che una sola attrice riesce a tenere in piedi l’interesse per un film. Le viene dato un personaggio enigmatico, che fin dall’inizio sembra non avere le reazioni degli altri, e lei lo rende un animale strano, calmo e letale, non una donna violenta come le altre ma una donna anch’essa a suo modo rabbiosa, solo che la sua rabbia è completamente diversa. È Betty Gilpin, con un repertorio di espressioni difficili da decodificare e con reazioni sempre poco prevedibili, a rendere quella rabbia molto più profonda di quella degli altri, molto più radicata, complicata e allusiva. È un’ansa di mistero che crea interesse anche maggiore delle vere ragioni e la vera origine di quel gioco mortale.

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