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16.7.20

Radioactive (id., 2020)
di Marjane Satrapi

Dopo l’esordio fulminante con Persepolis la carriera da cineasta di Marjane Satrapi è stata un continuo sprofondare nel baratro di cinema più amatoriale, toccando punte di ridicolo difficili da riscontrare altrove (La bande des Jotas è una visione sconfortante e imbarazzante per ambizioni e incapacità). Abbandonata l’animazione il suo cinema dal vero non solo non ha le qualità che solitamente hanno i film diretti da registi che vengono dall’animazione (una certa rapidità di racconto e una forte concentrazione sulle immagini) ma è dotato dei peggiori difetti di scrittura uniti ad una ingenuità visiva che lascia pensare che lei stessa non sia una gran spettatrice di film.

In Radioactive la storia di Marie Curie è raccontata per mostrare le difficoltà che poteva avere ad emergere una donna nell’800, anche se palesemente geniale. Non essere francese (l’origine è polacca) ed essere sessualmente libera (dettaglio inserito ad un certo punto in modo abbastanza forzoso dopo che per il resto del film è stata descritta come disinteressata al sesso) non aiutavano di certo. Tutto il racconto di Radioactive è forzato in quella direzione, nel mostrare il contrasto tra il genio e il mondo che non lo accetta. Eppure il peggio di sé il film lo dà quando cerca di aggiustare a martellate grossolane l’immagine della sua protagonista nella direzione che vuole la regista. Invece di proporre un ritratto complicato cerca di dare una spiegazione a tutto e lasciare gli spettatori con una visione e un giudizio chiari. Risolvendo addirittura anche le contraddizioni meno risolvibili (la grande scoperta che porta anche grandi problemi).

Dunque non sorprende che le informazioni e i dati storico-scientifici siano distillati male, in modi abbastanza didascalici, ma semmai sorprende che tutta la seconda parte del film, da quando Marie Curie è stata riconosciuta con il primo Nobel fino alla fine, sia una corsa a perdifiato dentro argomenti meno pertinenti e in un segmento di vita e storia che ha poco a che vedere con le conquiste, l’intelletto e la lotta contro la società e molto a che vedere con quello che Marjane Satrapi pensa di dover rappresentare: la grande espiazione.

Coadiuvata da alcuni dei peggiori cieli in computer grafica che si ricordino, usati per comunicare quel senso di minaccia, di solennità o anche solo di epica che il film non riesce a costruire altrimenti con le armi della scrittura, della tensione, e della messa in scena, Marie Curie marcia in una sorta di revisione di tutto quel che ci è stato detto di lei (una fobia degli ospedali, la difesa della propria scoperta). Molto tempo è speso nel raccontare il lascito della scienziata con un abuso di flash forward abbastanza parziali e non proprio corretti nel riportare l’ampio spettro di conseguenze delle sue scoperte.
Marjane Satrapi è disposta ad ogni bassezza per portarci dalla sua parte e convincerci della sua visione dei fatti e della figura storica.

Una sorta di espiazione di peccati che sono tali solo secondo il film porta quindi Marie Curie ad un mea culpa metaforico, fatto di sguardi pentiti verso i reduci di guerra, di ammissioni sofferte e di liberazioni davanti a nuove prese di coscienza, che mal si congiungono alla fierezza esibita nel resto del film. Soprattutto mal si uniscono a scelte di messa in scena ridicole come quella di farla dormire ogni sera con una fialetta verde radioattiva in mano, come dolce memento del marito defunto, anche quando è già a conoscenza (o sospetta) le conseguenze nefaste delle radiazioni sugli esseri umani.

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