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3.10.17

Emoji - Accendi Le Emozioni (Emoji - The Movie, 2017)
di Tony Leondis

Il crinale della condiscendenza è uno degli equilibri più complicati da mantenere, specie per un film d’animazione come Emoji - Accendi Le Emozioni, che scarta subito il pubblico più adulto e mira a soddisfare quello più infantile. Quanto andare incontro al modo di essere del proprio uditorio preferenziale e rappresentarlo, e quanto invece metterlo in discussione è estremamente complicato, poche volte però abbiamo visto una simile sragionata tendenza a piegarsi in ogni direzione per assecondare mode, brand e morali semplici, senza volerle mettere in discussione o anche solo fornire una propria interpretazione.
Quella pigrizia di scrittura e tendenza a copiare il già esistente che riconosciamo nell’animazione commerciale tedesca o scandinava, applicata ad un grande film americano è un colpo insostenibile.

Emoji è sostanzialmente una copia di Ralph Spaccatutto. Presenta il mondo dentro i device elettronici, in cui i personaggi si muovono per fare in modo che all’esterno tutto funzioni, e ha un protagonista fallato, diverso dagli altri perché non funzionante e quindi emarginato come lì era Vanellope Von Schweetz, affetta da glitch. Per animare tutto lo fa viaggiare in lungo e in largo (incluse le zone proibite, che qui sono quelle crackate) come scusa per mostrare la costruzione di quell’universo, tutto quello che conosciamo e cosa fanno i marchi più noti “quando non li stiamo guardando”. Alla fine, proprio ciò che rende il protagonista diverso, sarà ciò che lo rende speciale e tutto il resto delle ovvietà che si possono immaginare senza niente che invece non si possa già prevedere.

Purtroppo l’unica cosa che il film non prende da Ralph Spaccatutto è quel delicato equilibrio tra il celebrare e criticare, tra il dire qualcosa di familiare e noto e invece riuscire anche a scuotere un po’ le convinzioni di chi guarda. Emoji è un viaggio attraverso le compagnie di internet, in cui si precipita nella scatola di Dropbox, si cavalca l’uccellino di Twitter, si balla con Just Dance e si surfa sulle onde create dalla musica in streaming di Spotify (“Ma certo, non lo sai? Qui c’è tutta la musica del mondo!”). E tutto con l’obiettivo di aiutare il bambino possessore del cellulare a dire qualcosa alla bambina di cui è innamorato.

Così piccola è la tensione narrativa, così basse le aspettative per il futuro dei personaggi (obiettivamente: che cosa mai gli potrà succedere?!) che non si può che pensare a che gran lavoro sia stato fatto per quell’altro viaggio in un mondo “interiore” : Inside Out. Lì erano ricreate le dinamiche più sentimentali e la metafora non era dei servizi a pagamento o gratuiti, ma degli alti e bassi della vita di ognuno, degli abissi dell’oblio e della morte degli amici immaginari. La metafora colorata, comica e pupazzosa serviva ad addentrarsi nelle dinamiche più complesse e difficili.
Emoji invece è la gag non divertente del compagno di classe meno studioso e più rumoroso, convinto che agitarsi parecchio e appropriarsi la battuta che qualcun altro ha detto, cambiandola di pochissimo senza averne capito il senso vero, possa far ridere di nuovo.

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