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20.12.17

Coco (id., 2017)
di Lee Unkrich e Adrian Molina

“Miguel, stai confondendo i film con la realtà!” è quel che viene rimproverato al protagonista di Coco, per farlo desistere dal suo progetto di diventare musicista come il suo idolo Ernesto De La Cruz, chitarrista-attore degli anni ‘40 morto da tempo. I personaggi di Coco però non sanno che nei cartoni Pixar i film e ogni forma di video sono la verità più ancora della realtà!
Il problema di Miguel è che la sua famiglia ha da tempo rinnegato ogni forma di musica per fare scarpe, qualsiasi nota è bandita a causa di un trauma occorso alla bis nonna Coco (vecchissima ma ancora viva), abbandonata ancora piccola da un padre che era scappato per inseguire una carriera da musicista. Proprio Miguel scopre che questo padre era niente meno che il suo idolo: Ernesto De La Cruz.

La Pixar aveva cavalcato la moda della cucina quando questa era appena scoppiata con Ratatouille e ora arriva un filo in ritardo su quella dei talent. Molto della prima parte di Coco infatti si gioca sull’ansia di Miguel dimostrare davanti ad un pubblico il suo talento. Proprio la maniera in cui si parla del talento, del sogno e del grande domani artistico è il medesimo in cui la televisione confeziona le sue storie di successo da talent show. È questa insomma la maniera in cui lo studio ingloba un classico della Disney nel suo film più disneyano in assoluto. Per mettere in scena un ragazzo che va contro le tradizioni della sua famiglia, non rassegnandosi ad essere quel che gli viene detto di essere, la Pixar usa una mitologia tutta televisiva.

È così che nel giorno dei morti ruberà la chitarra dalla tomba di Ernesto De La Cruz, finendo catapultato nel regno dei morti. Lì inizia un secondo film, più pixariano e meno disneyano, in cui lo stesso studio che ha portato al cinema la storia di un topo in cucina o di un uomo anziano, pieno di acciacchi coinvolto in una grande avventura d’azione, tenta di raccontare la morte. Si badi bene, non il regno dei morti (già visto molte volte, anche recentemente in Il Libro della Vita), ma proprio l’atto del morire, non esserci più e scomparire. Certo è una visione conciliante con i defunti che rimangono vicino ai vivi, e li vanno a trovare, ma come già accaduto in Inside Out, anche qui il film ha il suo momento più terribile nella scomparsa per sempre di qualcuno (anche dallo stesso regno dei morti), unica possibile metafora di quel che è davvero per noi la morte.

Per farlo imbastisce una storia ovviamente avventurosa di regni lontani, parenti remoti (e morti) da trovare in tempo, di amici scheletri e soprattutto di rivelazioni a mezzo video. Come già scritto infatti, anche qui l’unica maniera per scoprire realmente le proprie origini o per svelare un inganno, la vera natura di un personaggio o ancora un piano segreto è vederlo tramite il video. Per la Pixar (è ormai evidente) solo attraverso la proiezione e gli artifici della memoria perpetua impressa su celluloide, digitale o nastro si può arrivare alla verità. Addirittura qui Miguel scoprirà la vera identità di un personaggio vedendolo comportarsi come in un film che conosce a memoria, nella realtà sarebbe stato ingannato da quelle azioni, ma avendole già viste in un film (che a differenza della realtà non è ambiguo), ha imparato che quei gesti preludono ad altro. Solo il cinema aiuta a vivere, solo le immagini riprese dicono la verità, l’unica vera forma di memoria possibile è quella del video.

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