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9.1.18

Benedetta Follia (2018)
di Carlo Verdone

Nei film di Verdone la Chiesa esiste con la stessa forma di noncurante prossimità con cui esiste a Roma. È lì come se non potesse non esserci, è parte della vita quotidiana, delle gag e delle tristezze, del ridicolo e del serio, senza che ci sia bisogno di crederci o di prenderne le distanze. È come fosse un vicino che non disturba, eppure c’è la sensazione che in maniera invisibile influisca su tutto.
Verdone è stato prete per finta in Acqua e Sapone (dunque una persona normale), prete per davvero in Io, Loro e Lara (dunque un convinto credente) e qui è proprietario di un negozio di arte sacra, tonache e articoli da Chiesa al centro di Roma, un uomo che fa affari con il Vaticano, completamente calato nella mentalità e nel tono necessario per avere a che fare con suore e cardinali (dunque un autentico bigotto, non a caso l’unico dei tre personaggi che ha bisogno di cambiare). In più è stato prete comico sia in Viaggi di Nozze che in Un Sacco Bello. Nonostante tutto questo in nessun suo film si è mai parlato realmente di religione.

Non accade nemmeno in Benedetta Follia, film pieno di pulsioni, in cui Verdone, oltre al già citato negozio al centro di Roma, è un uomo mollato dalla moglie nella cui vita entra una borgatara molto vitale e poco irregimentata. Spronato da lei uscirà, conoscerà altre donne disastrose e positive, risveglierà desideri sopiti da una vita tra ostie e crocefissi, sognerà la sua commessa/consulente amorosa vestita da suora sexy, si drogherà e parlerà con se stesso da giovane allo specchio (una versione ringiovanita di Verdone abbigliato da motociclista un po’ come in Troppo Forte che, a sorpresa, è fatta benissimo).
Forse proprio per l’elemento trattato, per l’amore a più di 60 anni attraverso il risveglio sessuale, per l’evidente pulsione nei confronti della giovane nuova commessa vestita sempre in maniera provocante e così vitale e attraente, qui il disinteresse per la religione suona come un silenzio assordante. Un’affermazione di scarsa attinenza tra i due temi che suona menzognera.

Tuttavia, anche dimenticando questo elefante nel fotogramma, Benedetta Follia coniuga alcune idee comiche particolarmente riuscite di Verdone a buona parte del suo consueto repertorio di tic e nevrosi (sempre più vicino a quel tono da battute ripetute e rassicuranti che si fanno in famiglia tipico delle ironie di Woody Allen su psicanalisi e religione ebraica) senza mai dare al film un passo narrativo coinvolgente che eviti alle singole situazioni di essere solo divertenti in sé, e le renda parte di una cavalcata umoristica. Verdone ha sempre girato storie meste in maniera ironica, ma qui sembra che ad essere mesta sia la realizzazione più che il tono. Perché se il merito di questo cineasta dalla vita professionale e dal successo infaticabili è di essere riuscito in quasi 40 anni a mantenere inalterata la sua capacità di guardare la società e renderla realmente divertente enfatizzandone alcuni elementi, a calare spaventosamente è stata invece la sua capacità di gestire il tono patetico con cui una volta si esaltava.

Rimane quindi la delusione per la fusione tra lo sceneggiatore e l’attrice di Lo Chiamavano Jeeg Robot (Nicola Guaglianone e Ilenia Pastorelli) e il cinema di Carlo Verdone. La Pastorelli, come già in Jeeg, dimostra di avere toni di commedia impeccabili, ottimi tempi e una buona versatilità, perché i soliti panni della borgatara li sa declinare in diverse situazioni, con diverse inclinazioni e diversi ritmi, insomma non li sfrutta e basta ma li padroneggia, come fanno le attrici. Una delle migliori partner di Verdone in una lunga galleria. Il contributo di Guaglianone invece sembra più incolore, lui che solitamente riesce a dare grande personalità ai suoi copioni, qui sembra aver lavorato di rammendo su una sceneggiatura tipicamente verdoniana, incidendo poco e senza portare con sè quella solidità di cui questa storia molto convenzionale (per Verdone) e priva di guizzi necessitava per essere meno dimenticabile.

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