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5.7.18

Brain On Fire (id., 2016)
di Gerard Barrett

Bisogna fare davvero molta attenzione con le storie vere, perché se si eccede nell’adesione alla realtà dei fatti e alla loro scansione, può accadere che non esca un buon film, perché non sempre la vita ha tempi e modi che si adattano al cinema. Non ne ha fatta tantissima Gerard Barrett che nell’adattare la storia della giornalista Susannah Cahalan, si intuisce, ha seguito più gli eventi veri che il manuale della sceneggiatura, finendo nell’imbuto di una storia piena di grumi, ripetizioni e momenti in cui l’intreccio si arena.

Perché capiamo subito che la giovane giornalista che sta iniziando a farsi strada nel New York Post affronterà dei problemi di salute, ma nessuno intorno a lei condivide la nostra certezza. È qualcosa di tipico in un film ma non protratto così a lungo! Vediamo ripetutamente vuoti di memoria, allucinazioni, deliri, silenzi e crisi epilettiche accompagnati da un cambio di messa in scena (rumori attutiti, fotografia un po’ più slavata ecc. ecc.) per sottolineare che sta avvenendo qualcosa. E per una buona parte questo è il film, l’arrivare di crisi e il muro degli altri che non capiscono nemmeno che c’è qualcosa di fuori dal normale.

Poi sarà il turno dell’odissea ospedaliera, in cui all’indifferenza si sostituisce l’incompetenza e l’ottusità medica, fino a che non arriverà l’annunciatissimo dottore ex machina, il medico diverso dagli altri, luminare ritirato che una dottoressa sveglia implora di tornare all’opera per quest’ultimo irrisolvibile caso (un po’ come accadeva negli action movie anni ‘80, tipo Rambo o Commando, in cui l’eroe è richiamato in servizio perché c’è troppo bisogno di lui).

Brain on Fire diventa così un film estremamente ripetitivo, che insiste sempre intorno ai medesimi elementi (continuamente sentiamo il fischio all’orecchio che sopraggiunge regolare ad ogni crisi e ben presto ne abbiamo abbastanza), come probabilmente è stato il reale iter della protagonista, ma come non dovrebbe essere l’intreccio di un personaggio di un film.

In tutto questo almeno Chloe Grace Moretz dovrebbe lavorare per ribaltare la noia. Il film (del 2016, arrivato ora su Netflix) è palesemente un veicolo per lei, dopo che già Resta Anche Domani l’aveva chiusa in un ospedale e prima dell’invisibile I Love You Daddy (il film di Louis C.K., bloccato dagli scandali che l’hanno coinvolto), solo che lei non ha davvero niente da mostrare. Ripetitiva, esagerata, teatrale e molto poco empatica, non solo non recita particolarmente bene, ma non riesce nemmeno in quell’esercizio di comunicazione del dolore o dell’impotenza che starebbe tutto sulle sue spalle di attrice.
Un inevitabile finale con le foto dei veri protagonisti ci ricorda come sempre che l’unica differenza tra film e vita vera è che nella seconda la gente è più brutta.

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