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5.7.18

Come Far Perdere La Testa Al Capo (id., 2018)
di Claire Scanlon

Un buon argomento a favore dei film di Netflix e dello spazio che occupano è Come Far Perdere La Testa Al Capo. Nei decenni passati le commedie romantiche erano i campioni di incasso oppure il classico livello medio che non scontenta il proprio pubblico, sono state responsabili per la nascita di star ma anche per la scoperta di incredibili caratteristi, formidabili scrittori e scrittrici o abili registi. Negli ultimi tempi sono stati invece film per lo più disertati dal pubblico, occasionalmente fantastici ma senza avere il successo che meritavano, spesso trascurati, di certo mai più pensati in grande. Erano diventate più che altro materiale che transitava molto in fretta in sala, cercando il successo nei passaggi televisivi. Ad oggi invece in sala non esistono praticamente più, come molti dei film da medio budget sono state schiacciate da un’economia che non le giustifica, al massimo possono essere degli original delle piattaforme di streaming.

Come Far Perdere La Testa Al Capo è la prima di queste produzioni originali Netflix a fare esattamente il lavoro che facevano una volta le commedie romantiche: rimette al centro di tutto un’idea di commedia divertente e sagace, fa bella mostra di una sceneggiatrice ottima (Katie Silberman, già co-produttrice di alcuni dei film medi migliori degli ultimi anni) e mette sotto il riflettore due attori abbastanza sottovalutati o sottoimpiegati, Glen Powell e Zoey Deutch (a dire il vero già insieme in Tutti Vogliono Qualcosa, perché Linklater non sbaglia mai). Per riuscirci imbastisce la storia più vecchia del mondo, quella di due cupido che cercano di accoppiare due persone indirizzandone il rapporto, i quali finiscono per innamorarsi a loro volta, e la ambienta nel mondo che abbia senso oggi, in cui ogni lavoro è oro e si è disposti a tutto per tenerlo stretto, anche a stare sotto un boss terribile e dittatore.

Silberman e la regista proveniente dalla televisione Claire Scanlon, riescono anche a recuperare quel feeling da commedia sofisticata fatto tutto di ambienti di alto livello, grandi interni, uffici costosi e vita cosmopolita, declinandolo non come una realtà quotidiana ma come un obiettivo da raggiungere. I due protagonisti sono esseri umani che credono di essere formati e arrivati, credono di essere nel luogo e nel posto in cui desiderano stare, e il loro viaggio sta tutto nella scoperta di essere solo in una zona intermedia della propria formazione, di ambire in realtà ad altro.
Nulla di eccessivamente pensoso (sarebbe totalmente fuori genere) ma tanto di sottilmente intelligente. Questo non è un film di intreccio (risaputo e semplice) ma di personaggi, di come questi abitino il loro mondo, di come si muovano in esso e di cosa accada intorno alla loro storia risaputa.

Non stupisce quindi che i caratteri migliori siano quelli marginali. Il coinquilino gay del protagonista (incredibilmente non uno stereotipo!) e soprattutto i due boss, paradossali come comanda una commedia ma anche umani quando serve, fallati, scemi eppur sagaci, come la loro descrizione impone. Non è facile scrivere, così, creare profondità con pochissime righe di dialogo e lavorare sulla leggerezza quando si hanno idee serie.

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