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6.6.19

X-Men: Dark Phoenix (id., 2019)
di Simon Kinberg

Sophie Turner è un problema.
Ha interpretato con decenza Sansa Stark in Il Trono di Spade per anni ma nei panni di Jean Grey non regge. Era un piccolo problema nei film precedenti, diventa uno grosso in questo nel quale è protagonista. Per fortuna intorno a lei il film fa di tutto per mettere pezze e rimediare alla mancanza di credibilità che porta con sé. Il problema infatti è che la recitazione di un cinecomic tocca dei registri molto precisi che vanno padroneggiati altrimenti decade immediatamente la credibilità. Molto dei poteri non vengono mostrati (specie nel caso di una telepate) e vanno resi con la recitazione, ne vanno rese le conseguenze, lo sforzo, la gravità e l’intensità ma non solo. L’eccitazione del volo, l’incredibile sforzo di un esercizio mentale, una percezione extrasensoriale ecc. ecc. è tutta una questione di recitazione e spesso non si tratta di lavorare sulle medesime corde di un film drammatico.

Sophie Turner non è brava su quei toni, non li domina, anzi! In questo film in cui il suo personaggio entra in contatto e assorbe un potere così grande da renderla sia l’essere più potente del pianeta, sia il più instabile e quindi gli rivolge contro tutti gli amici ed ex amici di una volta, mostra un campionario d’espressioni molto limitato e, cosa ancora peggiore, uno molto scarso di espressività. È una sensazione che pervade tutta la prima parte del film e diventa evidente nella seconda quando, per fortuna, entra in partita Michael Fassbender. Il confronto con questo attore che invece di film in film ha imparato a padroneggiare sempre meglio quei toni è impietoso ma salva X-Men: Dark Phoenix.

Dolore estremo, sforzo estremo, felicità estrema, commozione estrema ecc. ecc. non sono semplici da rendere senza scadere nel ridicolo e reggono un film di fumetti, specie uno come questo che ha al suo centro la dialettica dei sentimenti (quelli contraddittori, contro quelli semplici, chi li ha contro chi non li ha…). Robert Downey Jr. notoriamente fa un lavoro incredibile di minimalismo, da vero campione ha creato un suo modo di interpretarli, ma già un ottimo attore come Fassbender che semplicemente si limita a lavorare molto bene nei confini richiesti, confeziona un personaggio che centra quel punto all’incrocio tra la potenza e la gravitas, riesce a rendere l’importanza dell’immensa posta in palio in un film di fumetti (la salvezza del mondo!) buttandoci dentro anche un’impressione d’intelligenza. Anche se da sceneggiatura ne fa sfoggio noi crediamo immediatamente all’intelligenza superiore di Magneto, perché Fassbender la include nelle sue espressioni, perché sa che per il suo personaggio intelligenza equivale a pericolosità.

Atleticamente più convincente, dotato di movenze perfette per le scene d’azione e una capacità salvifica di stare fermo e dare movimento al resto (si guardi come nella scena in cui lui e Sophie Turner tentano uno di muovere e l’altro di fermare un elicottero, solo lui crei l’impressione di un confronto vero) Fassbender è un balsamo che rivitalizza anche gli altri personaggi e lancia il film.
X-Men: Dark Phoenix non è scritto in maniera eccezionale, né ha delle particolari doti di ritmo, appare come un chiaro esempio di livello medio dei cinecomic (categoria che per sforzo produttivo e talenti coinvolti raramente scade nel disastro), ma di continuo l’impressione è che rischi di peggio. Per questo in un film in cui, almeno da un certo punto in poi, si vira su un semplicismo abbastanza bieco, che almeno la recitazione regga il peso di una storia determinante per quell’universo (molte sono le carte in tavola che cambiano) diventa tutto.

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