Nonostante duri mezz’ora di più Il Re Leone, edizione 2019, è al 90% uguale a Il Re Leone, edizione 1994. Con alcune notabili (e significative) eccezioni la versione animata ad altissimo tasso di fotorealismo segue dialogo per dialogo, scena per scena, quella animata a mano (con un po’ di computer grafica), come fosse un testo teatrale rimesso in scena. Del resto è teatrale la base della storia (l’Amleto di Shakespeare regge tutta la struttura dell’intreccio) e sono teatrali molti dei confronti e degli scontri, basati su grandi monologhi e una recitazione sopra le righe.
Questa ricerca di identità non è assolutamente lo standard per la Disney quando si tratta di riportare in sala i suoi classici. Lo studio ha dimostrato di cercare il calco in pochi casi (La Bella e La Bestia) e di prediligere la correzione se non proprio lo stravolgimento. Invece per Il Re Leone sceglie di passare sopra a quasi tutti i tratti originali ma con un’impressionante ricerca di realismo. Uno dei punti in cui Favreau si distacca dalla matrice è infatti proprio la pedissequa ricerca di un’estetica da National Geographic. Non è solo il realismo ma proprio l’uso di inquadrature, l’imitazione di lenti lunghe, l’incastro degli animali nei grandi paesaggi, a voler rimandare ai documentari naturalistici (solo raramente sceglie inquadrature più cinematografiche e impossibili per un documentario). Rappresentare il grande cerchio della vita in quella che pare la vera Africa.
Tutto questo è il grandissimo pregio del film, quello che strabilia, ma anche il suo grande difetto.
La prima versione era infatti stilizzata come sempre sono i film d’animazione, aveva iene che marciano come nazisti, luci costruttiviste durante le canzoni, volti nelle nuvole e gag impossibili (Pumbaa e Timon che ballano con un gonnellino hawaiano), questo film invece riduce tutto al realismo (eccezion fatta per Scar, l’unico il cui design ci guadagna nel passaggio) mantenendo però quegli svolgimenti e inevitabilmente finendo per impoverire la potenza di diversi momenti. L’originale ha una trama tragica e a tinte forti che qui si ritrova pari pari ma senza l’espressività necessaria. I doppiatori urlano di dolore, piangono o ridono appassionati, ma in omaggio al realismo gli animali hanno un range molto limitato di espressioni che crea una dissonanza fastidiosa tra ciò che senti e ciò che vedi.
Chi conosce l’originale esce abbastanza deluso da una versione più mesta e frenata dal limitatore (fanno eccezione i dialoghi tra Pumbaa e Timon, tutti mutati, e qualche scena in più per Nala che la definisce un filo di più come eroina). Chi non lo conosce ed entra in contatto per la prima volta con quel mondo trova quello svolgimento classico privato di uno stile che ben gli si accoppi.
Su tutto poi c’è da chiedersi cosa voglia raccontare la Disney oggi. Per tutti gli anni ‘90 ha innovato mostrando sempre ragazzi e ragazze che per la prima volta si ribellano alla famiglia, cercano una loro individualità per poi tornare all’ovile ma diversi, la tradizione veniva mantenuta ma con costumi nuovi e moderni. Recentemente invece ha iniziato a demolire la famiglia tradizionale con Rapunzel, Frozen, Zootropolis e Oceania ma anche cambiando Maleficent, Dumbo e Il Libro Della Giungla.
Il Re Leone invece va nell’altra direzione e conferma il vecchio paradigma, il fatto che la famiglia tradizionale sia l’unica vera salvezza alla quale ogni fuga non può che tornare e la tradizione sia l’unica cornice in cui ogni indipendenza è destinata a confluire.
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