Bel Ami doveva essere per Robert Pattinson quello che il giornale La Vie Française è per il personaggio da lui interpretato, ovvero un modo per salire la scala sociale del suo ambiente.
Scelto non per meriti attoriali ma per bellezza e capacità di attirare un certo uditorio, bisognoso di legittimazione intellettuale ma infine tragicamente incapace di conquistarla se non appoggiandosi alle attrici più interessanti e esperte che la produzione gli affianca (Uma Thurman, Christina Ricci e l'immensa Kirstin Scott Thomas), Robert Pattinson annaspa tra espressioni vacue e incolori tutto il film, confermando che l'unico elemento di interesse di questa trasposizione è seriamente il parallelo assurdo che si crea tra interprete e personaggio.
Per il resto la versione di Bel Ami firmata da Declan Donnellan e Nick Ormerod opera la più classica delle "normalizzazioni" hollywoodiane, cioè l'annacquamento di qualsiasi sentimentalismo originale, lo smussamento di ogni asperità anticonvenzionale e la riduzione di un percorso europeo ai canoni del mito statunitense.
Accade così che il protagonista diventi un eroe vero e proprio, la cui rabbia e risentimento verso gli altri crescono nel film al crescere dei maltrattamenti nei suoi confronti. Contrariamente a quanto dovrebbe essere, il pubblico è portato ad empatizzare con Duroy/Pattison, il quale diventa malvagio e spietato (inclassificabili gli sguardi maligni nel finale...) a causa di quel che vede e subisce, dimenticando totalmente la critica alla sua figura in sè. Anzi dimenticando la figura in sè, che diventa un uomo come un altro, in balia degli eventi fino a metà storia, senza una volontà particolare o caratteristiche precipue.
Si tratta di uno di quei casi in cui la parola "riduzione" per lo schermo non si limita a durata ed eventi ma anche alla portata e ai significati. Bel Ami, dal libro a questo film, perde tutto il perdibile fino a lasciare l'ossatura dell'intreccio, il susseguirsi sommario degli eventi, totalmente asciugato di quello che significano.
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