Paulette (id., 2012)di Jerome Enrico

Sembra quasi un futuro distopico quello in cui si muove Paulette, l'anziana e rancorosa protagonista del film, invece è il presente di periferia francese, messo in aperta contrapposizione con il gioioso passato mostrato nei titoli di testa con abuso di viraggi in stile Instagram.

Paulette aveva una pasticceria e tutto sembrava andare bene, qualcosa è successo e oggi è una signora anziana, sola, che odia il mondo e soprattutto i nuovi francesi di razza mista come ad esempio il marito di colore di sua figlia e il loro bambino meticcio.

Vuole insomma essere una commedia cattivissima Paulette, che mette una signora anziana a fare il villain ma nella funzione di protagonista, la immerge nel crimine e le fa spacciare droga (leggera ovviamente!). Ma il clichè della nonnina spacciatrice non impressiona più nessuno, nè il binomio tra merletti e arsenico può far impressione. Quel che dovrebbe funzionare, semmai, sono le interazioni, la qualità della parte di commedia e il tono più generale. Tuttavia ogni buona idea viene lentamente guastata dalla noia e dalla banalità. La cattiveria, come ipotizzabile, si stempera in buonismo zuccheroso e in una crescente armonia rassicurante, e qualsiasi reale asperità che potrebbe emergere dalla storia di una donna anziana, lasciata sola e senza denaro con un moltissimo odio a farle da compagnia (la maschera arcigna di Bernadette Lafont è perfetta), è rigorosamente evitata.

Sebbene non arrivi all'estremo della condanna delle droghe leggere, da che inizialmente sembra parteggiare per gli spacciatori, lo stesso Paulette convola verso un equilibrio fatto di legittimità, medietà, ordinarietà e consuetudini che sembra suggerire che fosse questo l'obiettivo primario e che ogni altro stile di vita alternativo sia dovuto da problemi personali, risolti i quali si può essere (gioiosamente) come gli altri.