Mentre i trekker sono impegnati a segnalare tutto quello che non va con questo secondo film e trovare le parentele (o sarebbe meglio dire i ribaltamenti) con l'episodio e il film che già hanno raccontato lo scontro con il villain Kahn, il resto del pubblico se lo gode.
Utilizzando una parte del team di Lost e continuando sulla linea evolutiva imbastita con il precedente film, Into Darkness confeziona un pacchetto d'azione/avventura ai massimi livelli, infiocchettato da un 3D funzionale, che ha il suo trucco nel più banale dei presupposti, ovvero che siano gli eventi e il loro continuo susseguirsi a narrare la trama, senza dover sfruttare momenti di stasi e che tutto sia fatto con il massimo della leggerezza. Il nuovo Star Trek come il precedente è insomma un film di corsa, che pare svolgersi in un'unica grande fase concitata nella quale nessuno prende realmente sul serio nulla (o forse una cosa presa sul serio c'è, ma ci arriviamo).
Già nella partenza c'è tutto. Con una panoramica che sembra uscita da Temple Run il film inizia con un furto in un tempio di una civiltà primitiva e la necessaria fuga da uomini armati di lance, fino ad un velivolo nell'acqua che assicura la salvezza. Praticamente l'inizio di I predatori dell'arca perduta.
Più ancora che in passato infatti Abrams in questo film sfrutta tutte le lezioni impartite dal cinema di Spielberg quanto a fusione di azione e avventura, realizzando in pieno lo spirito alla radice ultima di Star Trek (non i suoi temi o i suoi personaggi, ma il suo spirito: prendere lo spazio e renderlo un luogo d'avventure vecchio stampo).
Sbriciolando ai minimi termini tutte le interazioni e le dinamiche tra i vari personaggi dell'Enterprise che la serie ha coltivato in anni (ognuno ha pochissimi minuti per sè ma nessuno manca), Abrams si concentra solo su Spock e Kirk decidendo che la modernizzazione del loro rapporto passi per il bromance. Il sentimentalismo virile è l'unica chiave emotiva reale del film e anche uno dei suoi pochi motori seri, capace, nel paradosso generale, di permettersi momenti presi di peso dal cinema d'amore che altrove risulterebbero imbarazzanti, come le mani che cercano di toccarsi da due parti opposte di un vetro.
Abrams svuota insomma la scatola e confeziona il niente (il film, alla fine, non parla di niente) capendo bene come al cinema a contare sia in primis il cinema stesso, lo splendore della macchina. Il suo film sceglie di alleggerire i contenuti fino a renderli una polverina sottile e innocua per prediligere lo svolgimento, cioè la messa in scena, perchè è essa stessa un contenuto. Realizzare un film a questa maniera è un'affermazione di principio, un atto di fede nelle potenzialità del cinema di comunicare senza passare per processi logici ma attraverso il suo specifico, ovvero il ritmo dinamico delle immagini impresso dal montaggio. In questo senso Star Trek - Into Darkness non è vuoto, è pieno di cinema.
Ma c'è un altro elemento clamoroso che rende Star Trek, paradossalmente, uno dei franchise più liberi di inventare, sperimentare e osare tra quelli portati al cinema in questi anni. Il rapporto che esiste tra questi film e la serie classica, reso materiale e tangibile da un personaggio in particolare, raggiunge punte paradossali che rendono Star Trek - Into Darkness il primo film che dialoghi (nel senso stretto del termine) con la serie da cui è tratto, chiedendogli addirittura, in un delirio di metacinema, come fare a risolvere la trama!
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