La sensazione uscendo da questo film di Kleber Mendoça Filho (girato assieme a Juliano Dornelles) è più o meno la stessa provata uscendo da Aquarius 3 anni fa, non tanto dispiacere ma una certa dose di dubbio sul posto che un film del genere possa occupare in concorso a Cannes.
Se Aquarius era una storia docile di una donna anziana che malvagi capitalisti dal volto e dal fare gentile vogliono sfrattare di casa (offrendosi di comprarle l’appartamento anche a caro prezzo ma poi anche con mezzi meno leciti) per i loro fini commerciali, qui c’è una trama più d’azione e violenta in cui un paesino di poche anime nel prossimo futuro entra nel mirino di alcuni cacciatori di uomini americani, gente che paga per sparare e uccidere persone di cui non importa a nessuno.
Come in Aquarius è una storia di un Davide contro Golia, là dove Davide è la tradizione, il passato, le origini e la memoria storica del paese e Golia è il presente, il business, gli Stati Uniti. E già una contrapposizione simile non è proprio il massimo della sofisticazione.
Entrambi questi film sono raccontini morali dalla posizione molto semplice e facile, che cercano tantissimo un occhio commerciale (qui meno riuscito che in passato almeno fino al massacro finale) e che vogliono suonare edificanti. Potrebbe essere molto facile derubricare il tutto non fosse che i due registi poi centrano più di una suggestione e più di un’immagine, come se imbrigliassero se stessi in schemi e gabbie semplici e manichei, per poi ritagliarsi momenti di puro cinema d’autore ad alti livelli, quelli in cui ciò che dicono le immagini e la storia non coincide per forza e la loro unione stimola suggestioni imprevedibili nella testa dello spettatore. Un amplesso ricordato in Aquarius fa più di tutto il film e qui una bara che tracima acqua rimane impressa.
Kleber Mendoça Filho e Juliano Dornelles insomma appaiono sempre più bravi del film che stanno facendo e il film stesso sembra sempre poter dare di più. Ma non accade. Quando Bacurau alla fine sceglie di diventare una sparatoria da Sergio Leone (tutta primi piani sudati, tantissima attesa, silenzi interrotti da pistole che emergono) forse trova il suo senso. Eppure è difficile non pensare che siano i consueti sogni, le proiezioni mentali e le visioni dei personaggi indotte dalle droghe che prendono a contenere l’anima di questi autori. Sono i momenti migliori, assieme all’immagine che da sola contiene le due ore del film (un uomo e una donna in là con gli anni e sovrappeso, nudi, che imbracciano un fucile in orizzontale come i loro avi e sparano per sopravvivere strafatti di droghe locali e tradizionali, degli indio nel futuro).
Ai due registi interessa guardare delle persone stare insieme per combattere, in armonia e in continuità con l’identità nazionale contro omologazioni straniere (sovranismo dalle radici comuniste), e sono anche bravi a confezionare una narrazione davvero fluida e invisibile, in cui gli eventi si srotolano davanti ai nostri occhi echeggiando di quando in quando il cinema più commerciale (ci sono momenti quasi da Tremors con degli avanti e indietro a cavallo e moto che portano brutte notizie) ma qui le cose sono due: o il film è cinema di genere e allora ci mette troppo tempo ad arrivare al dunque, o il film è un crossover tra genere e autore e allora decisamente serve un impianto visivo molto più deciso, personale e coerente perché si qualifichi.
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