Per quanto possa andare male, un film di Cameron Crowe avrà sempre le musiche. In questo caso il passo avanti è che ci sono anche le immagini.
Il merito è dei controluce al tramonto di Rodrigo Prieto (uno con in curriculum diversi Inarritu, un Almodovar e un paio di Ang Lee) e delle musiche originali (e non) di Jonsi dei Sigur Ros.
Accade così che nei momenti migliori di La mia vita è uno zoo, le sagome contornate di luce e il bagliore del pulviscolo che si agita nell'aria di campagna si sposano alla perfezione con la rarefazione dei suoni islandesi di sottofondo. Insieme quest'accoppiata riesce a parlare benissimo di quel vuoto esistenziale di una vita in cambiamento, presa nell'attimo in cui ancora non è mutata ma ci sta provando. Ci sta provando davvero!
C'è quindi tutto il meglio e il peggio di Cameron Crowe in La mia vita è uno zoo. La storia, tratta da un fatto vero, è quella di un giornalista avventuroso con due figli a carico e moglie appena defunta che decide di comprare uno zoo, invece che una normale casa, per cambiare vita ed elaborare (assieme ai bambini) il lutto. Si tratta di una delle migliori figure tirate fuori da Crowe, almeno dai tempi dell'altro "game changer", Jerry Maguire, un uomo razionale e incosciente al tempo stesso che prende il coraggio a due mani per cambiare la propria vita.
La sua odissea personale vive di momenti altissimi e al limite del commovente (sempre grazie alla coppia di fatto Jonsi/Prieto) ma anche di incredibili tracolli. Si tratta di abissi scavati dal lato oscuro e ruffiano del regista e riempiti con teneri bambini dalla risposta pronta e dalla frase giusta al momento giusto buona per intenerire, fratelli dal buon cuore e dalle espressioni assolutorie, sottotrame banali e trattate con poco riguardo (quella tra i due ragazzi) e con una ricerca artificiosa di suspense (l'albero, l'ispezione, il leone) che sa solo di maldestro.
Poteva essere insomma un film particolare e sospeso in un vuoto pieno di idee e potenza espressiva La mia vita è uno zoo, invece è un film che cerca in tutti i modi di essere canonico, di ricalcare strutture, racconti e dinamiche già note e metabolizzate dal pubblico. Una storia vera fatta rientrare a forza nella tipica struttura a tre atti e nelle regole di linguaggio del cinema americano, quando invece sembra nata per essere ondivaga, vivere di non detti e volti nel sole.
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