Come sempre nel cinema (migliore) di Peter Weir si attraversa una vastità, ci si perde e può succedere di tutto proprio perchè si è immersi negli elementi naturali. Stavolta sono deserti, bufere di neve, laghi, montagne e boschi, attraversati da 5 uomini (e per un certo periodo 1 donna) per mesi e mesi. La storia è quella vera di una clamorosa fuga da un gulag comunista, la drammaturgia tutta fittizia invece, si vede, è farina del sacco di Weir e Keith Clarke.
Contrariamente a quel che farebbe supporre il titolo, The way back non indugia sul concetto di "ritorno", cioè non punta alla nostalgia e il desiderio che spinge l'uomo oltre il dolore verso una meta, ma proprio sul viaggio, cioè sull'immersione negli elementi ostili e la sopravvivenza a diversi scenari.
Se però spesso in passato le peregrinazioni di Weir erano praticamente monosessuali, riservate cioè a persone diverse ma tutte del medesimo sesso, ora l'ingresso di una donna ad un certo punto del viaggio diventa un elemento scardinatore come pochi se n'erano visti.
Osservando la maniera con la quale Weir guarda e lascia interagire il suo branco di uomini con la donna improvvisamente aggiuntasi, si comprende ancora meglio come la scelta di non avere donne che pronuncino battute in Master & Commander non sia frutto di misoginia ma semmai del suo contrario.
L'assenza femminile nel film marittimo si fa sentire moltissimo proprio perchè i rapporti virili sembrano sempre zavorrati da silenzi e incomprensioni, proprio come quelli stretti tra i diversi uomini in fuga dal gulag fino a che l'elemento femminile non arriva a fare da tramite.
L'impressione è che benchè la sua presenza sia costante solo per poche decine di minuti Saoirse Ronan costituisca l'elemento vitale del film. Il punto di svolta che consente all'Odissea virile uno scarto di senso che è anche la sua unica possibilità di emersione dal grigiore per il film.
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