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7.12.15

Heart of the sea - Le origini di Moby Dick (Heart of the sea, 2015)
di Ron Howard

Ron Howard è come l'acqua, prende la forma del contenitore in cui è versato, gira film le cui sembianze dipendono eccessivamente dalle sceneggiature che riceve. Ha uno stile personale fuggevole e leggero (ultimamente si è innamorato delle inquadrature ravvicinate, della pornografia dei dettagli montati uno dopo l'altro, raccontare i meccanismi dai loro anelli, per molto tempo invece è stato innamorato dei lenti carrelli che ammirano i personaggi presi da Spielberg), è determinato a mettersi al servizio degli script, esegue con mano molto ferma e sa lavorare sugli attori. È il mestierante come l'abbiamo sempre inteso, uno che potrebbe non avere un proprio gusto e che cerca nel mare di script di oggi la tradizione del mondo produttivo che abita. Questo fa sì che possa realizzare ogni tanto un film come Rush, puro Peter Morgan contaminato di epica hollywoodiana, asciutto e secco su un tema su cui forse un altro avrebbe innestato le proprie ossessioni mentre lui, pendendo verso il classico mitiga le asperità di Morgan. Ma è anche il motivo per il quale la maggior parte della sua produzione, che di certo non brilla per ottimi sceneggiatori, sconforta.

Heart of the sea è un caso particolarmente mal riuscito di variazione sul tema. La storia è quella del vero disastro marino che ispirò Melville, la sceneggiatura di Charles Leavitt, Rick Jaffa e Amanda Silver immagina che Melville sia andato dall'ultimo sopravvissuto di quel disastro a farsi raccontare per filo e per segno gli eventi in modo da lasciarsi ispirare per il suo libro. Howard mette in scena senza porsi domande, non discute ma cavalca la parola scritta e porta all'estremo uno degli impianti peggiori degli ultimi anni. Nella storia di Melville che ascolta il racconto c'è la previsione di quello che farà, una sorta di destino manifesto e di epifania del futuro così ingenua da imbarazzare, senza contare che i tre sceneggiatori abusano dell'idea di creare suspense riguardo il finale rendendo il loro narratore reticente a svelare qualcosa che quando arriverà sarà totalmente insufficiente a giustificare tanta reticenza.

La parte di flashback, ovvero il film vero e proprio, non è migliore. La parabola dell'eroe solo contro gli elementi, proletario opposto ad un regime aristocratico che non gli vuole riconoscere quel che merita per censo, rimane nei confini dell'epica già masticata ma anche in quelli si muove con poco agio. Heart of sea è un film di mare senza mare, con uno dei peggiori usi del green screen degli ultimi anni, privo del respiro dell'avventura e dell'aria in faccia, che è il suo peccato meno perdonabile. La mancanza della grandezza e del concreto confronto con un'immensità esterna da sè è quel dettaglio che la messa in scena doveva estrarre con le pinze anche da questa striminzita sceneggiatura accartocciata su se stessa. L'imperdonabile e puerile culto dei grandi, unito alla riverenza per i suoi personaggi poteva passare in secondo piano se Heart of the sea fosse diventato un preambolo o lo strumento per andare là dove il titolo indica, nel cuore nero del mare come dice l'incipit, vicino alla mitologia che serve spaventare.
Heart of the sea non lo fa e non lo fa per tirchieria registica, per il braccio corto di Ron Howard che scambia l'ossessione del suo protagonista per confronto epico.

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