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5.9.16

Spira Mirabilis (2016) di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti

MOSTRA DEL CINEMA DI VENEZIA
CONCORSO
Cinque segmenti, cinque artigiani al lavoro, apparentemente non collegati fra loro ma intellettualmente associati dal film a fuoco, mare, terra, aria ed etere. Uno scienziato che lavora instancabilmente sulla ricerca di una forma di medusa che pare immortale (acqua). Artigiani musicali che costruiscono strumenti in latta (aria). Gli scultori che restaurano e sistemano il Duomo di Milano (terra). Alcuni membri di una tribù nativa americana da sempre vessata dagli Stati Uniti (fuoco). Un’attrice narra L’Immortale di Borges in un cinema abbandonato (etere). D’Anolfi e Parenti non raccontano ciò che riprendono, mostrano i gesti che lo compongono, ne fanno vedere la parte più manuale, fanno una cronaca del lavoro.

Girare un documentario antinarrativo è impresa difficilissima, parente della contemplazione, vicina all’osservazione naturale, necessariamente alimentata da un comparto visivo e da un montaggio in grado di lavorare nella testa dello spettatore. Lo sa bene Gianfranco Rosi, lo sa ancora meglio Minervini che compie un doppio salto mortale e con il solo montaggio rende narrativo ciò che non lo è. Spira Mirabilis invece non ci riesce. Mai.
D’Anolfi e Parenti montano per assonanza visiva (spesso forme simili si avvicendano da uno stacco all’altro), sovrimpongono due immagini per mutare l’aspetto e deformare il punto di vista, inquadrano attraverso una finestra oppure cercano i rumori fortissimi e paradossalmente asettici per fare poesia con gli elementi meno usuali. Spesso indovinano immagini affascinanti, mai riescono a metterle in relazione per creare senso.

Spira Mirabilis in questo senso non è un brutto film ma un fallimento. L’idea che lo guida è ammirevole (per quanto molto elementare e appoggiata ai grandi clichè degli elementi della Terra), i soggetti scelti anche e molti dei processi messi in scena (specie la generazione del suono e il micromondo delle meduse) sono ripresi con un ottimismo e una fascinazione per le capacità umane che sarebbero degni in un film migliore. Le singole scene calamitano insomma ma il loro lunghissimo avvicendarsi (120 minuti), cioè il flusso di immagini di uomini al lavoro o uomini che protestano, è privo di una significativa costruzione interna.

Pur essendo fieramente antinarrativo (per quanto poi l’unico segmento “narrativo”, la canzone del ricercatore giapponese affiancata con il suo riposare, sia la cosa migliore in assoluto per intuizione e commozione) Spira Mirabilis dovrebbe essere fondato su una costruzione rigida, su un’impalcatura implacabile che consenta a momenti apparentemente ordinari di farsi straordinari, che permetta all’insignificante di farsi significativo all’interno di quello che chiamiamo “film”. Ma non lo è. Per questo, nonostante l’intenzione e le scelte, alla fine non mostra altro che non il fallimento di pretese evidentemente sovradimensionate.

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