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26.4.17

La Tenerezza (2017)
di Gianni Amelio

Un anziano avvocato di Napoli vede passare davanti a sé i figli (una più amorevole con lui, l’altro meno incline a farsi maltrattare) e una famiglia di vicini di casa, simpatici ma con diversi problemi. Lui ha un passato da bastardo ed è malato ma non ha intenzione di curarsi, carattere duro, sembra disilluso nei confronti della vita, sembra in cerca di qualcosa che non trova e che forse emerge nelle interazioni con gli altri. Da questi presupposti La Tenerezza si batte per conquistare lo statuto di cinema d’autore e nel farlo affoga nelle proprie ambizioni. La voglia di andare al di là della propria trama, di fare delle interazioni e dell’astrazione al di sopra della contingenza il punto di tutto è così forte che pare emergere solo quella. Pare cioè che il film sia più interessato ad aderire ad genere (“il film d’autore italiano”) piuttosto che a raccontare qualcosa, più interessato ad atteggiarsi che ad essere.

Fin da subito questo film di Gianni Amelio si presenta come la fiera del bravo attore, in cui le reazioni sono inutilmente esagerate, urlate e intense senza una ragione apparente. Cosa ancora peggiore, tutto ciò non è nemmeno sinonimo di una vera ottima interpretazione. Ogni attore, da Micaela Ramazzotti a Elio Germano fino a Giovanna Mezzogiorno e al protagonista Renato Carpentieri, ricorre metodicamente alle proprie tecniche, alle proprie espressioni tipiche e alle proprie mosse, sfrutta cioè il proprio repertorio. È la differenza tra guardare un personaggio e guardare un attore nell’atto di fingere ricorrendo ai luoghi comuni del proprio stile. Un atto di vanità difficilmente sostenibile in tutto un film così pieno di sé, in cui ogni attore pare da solo in scena, rivolto a se stesso e mai capace di interagire con gli altri per creare qualcosa di superiore alla propria prestazione.

Anche la scelta di connotare con grande forza l’ambientazione, cioè Napoli, sembra più una scelta teorica che pratica. Perché al netto di tantissime inquadrature e luoghi ben scelti (del resto alla fotografia c’è Luca Bigazzi) non c’è mai davvero un rapporto tra personaggi e paesaggio. Al netto della grande presenza di Napoli, Amelio cioè non crea una personalità per la città ma cavalca gli elementi che già gli attribuiamo. Vista la trama Napoli poteva essere una città che fa impazzire, un luogo di follia, oppure un posto normalizzante, poteva avere a che fare con le varie tenerezze oppure ostacolarle, insomma poteva avere mille ruoli. Invece non ne ha nessuno se non essere bella.

Non è nemmeno questo però il problema vero di La Tenerezza, quanto il fatto di essere un film che cambia protagonista di continuo nel corso della sua storia dimostrando solo di non riuscire a creare interesse in nessuno di essi. Uomini e donne che guardano fissi davanti a sé, che sono tristi e irrisolti senza riuscire a rendere lo spettatore partecipe dei propri drammi. Tutto il già elencato alla fine porta a questo, ad una sorta di atteggiamento autoriferito, un film che esiste per definire se stesso.
Quel che al contrario sembrava davvero lecito aspettarsi dai presupposti del film era che almeno da tutto questo dolore esibito così travalicante e ubiquo uscisse qualcosa, che delle molte interazioni sentimentali tra i personaggi almeno qualcuna avesse la forza penetrante del romanticismo urbano o dell’ultima occasione di una vita. Invece, di nuovo, l’unica impressione è che sia tutto funzionale all’idea di “film d’autore italiano”.

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