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25.10.17

Loving Vincent (id. 2017)
di Dorotha Kobiela e Hugh Welchmann

C’è una tecnica a fare da spunto a Loving Vincent, la possibilità di girare in rotoscoping la storia di un pittore, ricalcando ogni fotogramma con dei dipinti olio su tela nello stile di Van Gogh fino a creare un’animazione fluida eppure mossa al tempo stesso. Il mondo del pittore ritratto con il tratto del pittore stesso.
Per questo motivo stupisce molto che in un film concepito a partire da un’idea visiva, ci sia anche una narrazione interessante, per quanto pretestuosa. Partendo dall’assunto che le circostanze della morte di Van Gogh non sono chiarissime (ma nemmeno eccessivamente misteriose), il film utilizza un’indagine come scusa per girare nel suo mondo, e lo fa attraverso la figura di un ragazzo che si appassiona a cosa abbia portato alla morte del pittore.

Evidentemente Loving Vincent (il titolo gioca sul doppio senso dell’amore per il pittore e della chiusa delle lettere che spediva al fratello Theo) è un film che gioca di sponda con i dipinti, con gli ambienti e i personaggi ritratti da Van Gogh, come se tutto quello che si possa sapere venga dalle sue opere. Senza mai mostrarne una, il film le rifà, ambienta le scene nei cafè di Van Gogh, nelle stanze da lui ritratte, nei campi di girasole e nei locali in cui bazzicano i suoi soggetti (pescatori, contadini, donne di piacere…). È una variazione sensibilmente più interessante sul tema “dipinti che si animano”, perché non c’è nessun dipinto effettivamente animato ma la voglia di costruire una storia e una drammaturgia a partire da un set di personaggi di cui Van Gogh ha curato il character design. Un film d’animazione con Van Gogh come art director, in cui abbinamenti di colori, toni, espressioni e quella sua cupa malinconia che nasce da colori accesi, impostano il mood.

Non sarà certo l’indagine al centro della storia a tenere avvinti, questo è evidente fin dall’inizio, ma è anche vero che la maniera in cui è svolta la lenta maturazione nel protagonista di un serio interesse per le vicissitudini di un uomo che lui percepisce come un derelitto (e non certo come un artista), ha un carattere umanamente coinvolgente.
Strano di una stranezza molto poco geniale e più che altro clinicamente disturbata, il Van Gogh che esce da questo film dichiaratamente agiografico è un povero freak preso in giro dai bambini che gli tirano i sassi, guardato con sospetto da tutti, a tratti odiato per il suo talento ad altri ignorato per le sue stranezze, picchiato dai bulli ed emarginato. Un uomo con cui nemmeno l’amico Gauguin riesce a convivere per quanto sia umorale e intrattabile. Eppure non c’è malinconica ruffianeria in Loving Vincent.

Addirittura a tratti si ha l’impressione che il protagonista cambi, che non sia più l’artista morto ma la malvagità di una piccola comunità incapace di tollerare un diverso, una persona con dei problemi di relazione ma in fondo innocua.
In questa maniera la controllata e innocente ricostruzione storica in cui rischiava di infilarsi il film, viene contaminata da una carica rabbiosa e incattivita, da un odio profondo per le eterne dinamiche della folla. È una sensazione costante che dona al film un passo fiammeggiante, finalmente ben appaiato con i colori e i toni dei suoi tratti.

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