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28.2.18

Mute (id., 2018)
di Duncan Jones

Su quello che sembra essere il set utilizzato da Denis Villeneuve per Blade Runner 2049, Duncan Jones ha girato Mute. Design del futuro, scelta di colori e luci (quei i toni tra il viola e il blu che dominano molti film recenti) ma anche il mood sono i medesimi, anche se dal look di uno primi personaggi che compaiono in scena, quello di Seyneb Saleh, sembra di capire che l’ispirazione di Duncan Jones siano stati più che altro i fumetti di Enki Bilal (a loro volta un’ispirazione per l’originale Blade Runner, chiudendo un grande cerchio).

E proprio come nei fumetti di Bilal (e i film di Villeneuve e Ridley Scott) anche Mute all’inizio fa un ottimo lavoro nel convincerci che il mondo che sta raccontando è dominato da una forma di romanticismo noir destinato all’infelicità dalla società infame in cui è nato. È lo stesso mondo di Moon, come si vede più di una volta nei notiziari che trattano la storia del clone tornato dalla Luna interpretato da Sam Rockwell.

I problemi del film iniziano quando Mute imbastisce la sua trama di indagine nei bassifondi. Nella Berlino del futuro un amish muto che lavora come barista vede la sua ragazza sparire di colpo (non prima di avergli detto che deve “parlargli di una persona”) e inizia a cercarla finendo per incrociare più volte gli affari di un sadico e sanguinario ex chirurgo militare che ha messo il suo bisturi a servizio della mafia in attesa di essere trasportato fuori dalla città assieme alla sua bambina.

E qui forse sta la parte migliore di un film scritto molto male, in questa versione casalinga, bisessuale e paterna del male, tutta coltelli, minacce, isteria da villain e problemi su a chi lasciare la bambina quando entra in azione. Il personaggio in questione, interpretato da Paul Rudd, ad un certo punto finirà anche per scambiarsi la parte con il protagonista senza però cambiare la propria polarità (i buoni rimangono buoni e i cattivi cattivi), in una delle svolte più interessanti e ambiziose di un film altrimenti privo di idee vere e troppo lungo (e scritto con troppa poca voglia) per gli eventi di cui è popolato.

Mute infatti è un film che dovrebbe vivere di un intreccio forte come i noir cui anche si ispira, uno in cui le peripezie dei personaggi, i giri in cui sono coinvolti e quell’incrocio tra il caso avverso e le scelte pessime costituiscono un continuo di svolte e scoperte. Invece per troppo tempo nelle due ore del film quest’intreccio non è portato avanti, e anche il protagonista di Alexander Skarsgard, non essendo mai davvero raccontato bene, esaurisce ben presto il suo interesse. Confinato ad essere un gomitolo d’odio avvolto in se stesso, almeno per l’ultima mezz’ora, il barista amish con un grande amore da andare a recuperare sembra aver dimenticato il suo obiettivo. Il film preferisce concentrarsi sulla sua sofferenza che tuttavia non sentiamo come tale perché comunicata sempre nella stessa maniera finendo per essere solo informazione ridondante.

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