Con uno standard di messa in scena degno dei telefilm e un’azione montata così male da far venire voglia di uscire dalla sala, Escape Plan 2 è il tipico caso di “sindrome cinese”, cioè la mondializzazione forzata di un film per aprirgli la strada orientale. Con l’ingresso di capitali cinesi, arrivano nuovi personaggi (e non sarebbe un male) ma anche un cambio radicale di interazioni, valori e spirito. Escape Plan 2 cresce in spettacolarità per adeguarsi agli standard asiatici ma senza la vera capacità di farlo. Con il cervello di un bambino e l’esigenza atletica di un adulto il film affidato improvvidamente al regista di Silent Night (Steven C. Miller) e pensato per una trilogia, passa tantissimo tempo a mettere in scena pretestuosi combattimenti ma pur avendo a sua disposizione discreti atleti li monta così tanto e così male da renderli incomprensibili e ancora più inutili di quanto non siano sulla sceneggiatura. A nessuno interessa costruire un climax, preparare dell’azione o cucinare a fuoco lento la tensione, serve tutto e subito, nella convinzione che importino poco le cause, solo gli effetti siano ciò che serve.
Con Stallone tenuto a lungo nello sfondo nel ruolo di mentore e solo nel finale coinvolto in prima persona e Bautista totalmente dimenticato, nonostante l’ingannevole preminenza nella locandina, il film è lasciato in realtà in mano a Huang Xiaoming e Jaime King. Viene inoltre creata una mitologia intorno alla terribile prigione di questo film, una che crea dei vertici e un direttore (figura intelligentemente assente nel primo film). La grande trappola che pare un’astronave è gestita senza nessuna logica con ovvio sadismo ma poca ragionevolezza, sembra pensata proprio perché qualcuno possa tentare di scappare.
L’unica cosa peggiore di questo film è l’idea che ne verrà fatto un altro.

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