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29.9.18

Girl (id., 2018)
di Lukas Dhont

C’è un corpo in transizione al centro di Girl. Un ragazzo in età da liceo che vuole diventare donna. L’abbigliamento, l’atteggiamento e i toni sono già da donna, ma con ormoni e interventi desidera diventarlo a tutti gli effetti. Non è semplice e lungo tutto il periodo del film il suo è un corpo a metà. Non più uomo, non ancora donna.
La parte migliore dell’idea alla base di Girl è che cambiare sesso non sia una realizzazione di sé (almeno non solo) ma un processo terribile che ha a che fare con il martoriamento del proprio corpo. Che esista un dolore non puntuale, come quello dell’intervento, ma lunghissimo e che la mutazione del corpo debba avvenire a tanti livelli diversi. Questo film, rispetto a tanti altri, intende il cambiamento sessuale come una mutazione in più dimensioni.

A fare da specchio a questa fase è il fatto che la protagonista cerchi anche di diventare ballerina classica professionista, affrontando, anche lì, un percorso di dolore, sangue, ferite, ossa che si piegano e muscoli che si formano. E più si impegna e soffre per questioni di balletto, più sembra di vedere un uomo con un fisico da uomo ma in tuta da balletto che cerca di diventare altro non riuscendoci (ma con un supporto da parte di tutti commovente). E poi ancora il dolore per colpa del corpo viene dagli sguardi altrui della nuova scuola, in cui molti sono curiosi di cosa esattamente sia. Le ragazze più ancora dei ragazzi che vorrebbero vederla nuda, i professori che chiedono a tutti se sono a proprio agio con il fatto che lei usi il bagno delle donne e via dicendo. C’è una forma sottile e invisibile di attrazione da parte della società verso questo corpo che non è né uno né altra, è in mutazione e tutti vorrebbero capirlo.

E nonostante a Girl troppo a lungo manchi un obiettivo, visto come pedini un personaggio senza la tensione verso il raggiungimento di uno scopo, una persona o un obiettivo, lasciando per una buona parte del film lo spettatore a macerare in attesa di qualcosa, è anche vero che ha una capacità non comune di rendere la potenza dello sguardo altrui. Quando la protagonista è guardata con curiosità e bramosia di vedere e conoscere dagli altri, sono momenti di grande durezza capaci di comunicare come uno sguardo estraneo possa provocare dolore.
E per tutto il film sarà guardata. Alle volte da un cameriere, altre da una ragazza come lei. Un po’ tutti, anche chi la incontra occasionalmente, sembrano attratti da ciò che non capiscono bene. Oltre al discorso individuale sul mutare, ce n’è uno più generale sulla nostra fascinazione verso l’ambiguità sessuale che è forse ancora più appassionante.

Così quando finalmente arriva un po’ di tensione, il film si può gonfiare e assumere proporzioni e ritmi corretti. Quando finalmente (ahimè solo verso la fine) ci saranno scelte da fare, problemi da risolvere e intoppi che sembrano pregiudicare tutto, Girl assumerà una dimensione più consona al proprio stile, fuggendo dal semidocumentarismo che così male gli calza e abbracciando una compiutezza che sarebbe stato auspicabile avesse fin dall’inizio.

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