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5.2.19

Il Corriere - The Mule (The Mule, 2019)
di Clint Eastwood

A poco dall’inizio di Il Corriere - The Mule, quando la trama entra nel vivo e il floricultore protagonista vede il suo grandissimo business finire in malora per la crisi e l’arrivo delle nuove tecnologie, sembra di capire quale dovesse essere il genere di questo film prima di subire il trattamento Eastwood. È una storia vera e paradossale, tratta da un articolo del New York Times, nella quale il floricultore in rovina decide di diventare corriere per i trafficanti messicani, poiché abituato a viaggiare in macchina e mai fermato in tutta la sua vita dalla polizia. Nessuno lo scopre perché al di sopra di ogni sospetto.
Non è uno spunto diverso dall’ironia di Pain and Gain, Trafficanti o tutti quei film che hanno affrontato storie vere e paradossali enfatizzandone il senso grottesco. Ma non è il grottesco che interessa ad Eastwood, anzi! Il suo tocco normalizza qualcosa di clamoroso.

Dopo il trattamento Eastwood Il Corriere è una storia che si svolge secondo un asse caro al regista (quello del doppio punto di vista del criminale e del poliziotto che lo caccia, senza che nessuno dei due sia connotato come positivo o negativo) e invece di essere grottesca la storia è leggera. La vera sorpresa è l’ottimismo del quale è pervasa questa trama sulla carta amara e terribile. Il floricultore ha una brutta situazione familiare, le gang lo tengono all’oscuro di molto e lui rischia di perdere tutto, eppure canticchia, fischietta, si ferma a mangiare in posti buoni, ci mette più del previsto ad arrivare ma consegna sempre. Nemmeno le consuete minacce da gang lo spaventano, lui è tranquillissimo, non nasconde la droga ma la tiene nel bagagliaio del pickup mentre procede a velocità di crociera moderate sull’autostrada.

Questo contrasto crea una particolare curiosità che si aggiunge alla caratteristica principale del montaggio eastwoodiano, quella capacità di conferire a sequenze e inquadrature il potere di attrarsi a vicenda. Mentre una è sullo schermo sentiamo la tensione dell’altra che arriva, mentre vediamo una scena desideriamo l’arrivo della successiva e tutto avviene in un flusso privo di strappi o accelerazioni ma dal ritmo sempre costante, anche nelle poche scene di tensione o di alleggerimento. È una capacità che lo rende al tempo stesso classico ed eterno, che non fa invecchiare i suoi film ma anzi li tiene sempre attuali, l’equilibrio di un ritmo costante.

Tuttavia più che la godibilità del film (eccezionale) a rimanere impresso è il paesaggio umano. Il Corriere è un continuo viaggio attraverso il paese e le persone che lo popolano, uno in cui il protagonista incontra afroamericani, lesbiche, immigrati, messicani truffaldini e onesti, non è Una Storia Vera di Lynch, non ne ha il tono contemplativo, ma a tratti quasi lo sembra. Un anziano viaggia con lentezza e gode dei paesaggi, della musica, del cibo (e delle donne!), mentre la polizia lo cerca senza successo lui gli passa accanto. Non sa mandare SMS e non ha fretta di impararlo, stabilisce buoni rapporti con tutti, anche con le gang e diventa il miglior corriere della mala. Vedendolo viene voglia di produrre un reality su Clint Eastwood che attraversa il paese in macchina e parla con la gente.

Questo paesaggio americano è infatti il mondo visto da Eastwood, quello in cui le categorie non contano, servono solo per essere apostrofati. Lui è “Ehi vecchio!”, le motocicliste gay sono “Ehi lesbiche!”, gli afroamericani che si ferma ad aiutare perché hanno una ruota sgonfia sono “Voi negri”, a contare sono i singoli mai le etichette e il loro sovrauso è per svilirne il potere identificativo, per ridurle ad appellativi. Anche i trafficanti messicani non sono dei bastardi necessariamente, il numero 2 del cartello in particolare è guardato con fare quasi paterno, esattamente come avviene con il poliziotto che gli dà la caccia. Sono sullo stesso piano perché sono due poveri diavoli alla stessa maniera.
In un film in cui il protagonista sceglie scientemente di aiutare il traffico di droga per non ammettere di essere finito rovinato, sembra che non esista una vera morale se non quella personale, quella con cui si conducono le singole interazioni.

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